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#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: nero, gay, suicida. Justin Fashanu, il primo a rompere il tabù

di Ivan Cardia
#iorestoacasa - Tuttomercatoweb.com propone ai suoi lettori delle storie di calcio per tenerci compagnia in queste giornate tra le mura domestiche
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Hai 20 anni, giochi a calcio, fai l’attaccante, vesti la maglia del Norwich e sei pronto a trasferirti al Nottingham Forest. Il mondo è ai tuoi piedi, ma tutto sta per andare a rotoli e ancora non lo sai. Perché ti chiami Justin Fashanu, sei di colore ma questo è l’ultimo dei tuoi problemi. Il fatto è che ti piacciono gli uomini. E al tuo allenatore, ma non solo a lui, questa cosa proprio non va giù. Quella che ha tutte le potenzialità per essere una bella storia diventa una tragedia. Conclusa col cappio al collo.

Justin Fashanu nasce a Londra il 19 febbraio 1961. Ha un fratello che si chiama John e diventerà calciatore anch’egli. Sono figli di un avvocato nigeriano e di un’infermiera guineana. Quando la coppia divorzia, i due bambini vengono spediti in un orfanotrofio, per poi essere adottati, nel 1967, da una coppia della contea di Norfolk. Justin si dimostra subito propenso agli sport: sa tirare bene di boxe, ma soprattutto sa giocare a calcio. Entra nelle giovanili del Norwich City.

Il primo calciatore di colore a valere un milione. Non è uno come gli altri, da tanti punti di vista. È nero, e questo nell’Inghilterra degli anni ’80 e degli hooligans è un problema. I tifosi avversari gli lanciano banane in campo, lui se ne frega e continua a correre, a segnare. In tre stagioni con la maglia dei Canaries gioca 103 partite e realizza 40 gol. Uno contro il Liverpool è particolarmente bello: la BBC lo elegge a furor di popolo gol della stagione. Nell’estate 1981 la chiamata del Nottingham Forest, in quegli anni tra le società più importanti del calcio inglese ed europeo: sia nel ’79 che nell’80 ha vinto la Coppa dei Campioni. Il trasferimento fa notizia: Fashanu è il primo calciatore di colore a essere pagato un milione di sterline. Una star, un campione.

A Clough non piacciono i gay. A Justin, invece, piacciono gli uomini. Non lo dice apertamente, non ancora, ci arriveremo. Ma è impossibile non notarlo, non saperlo, soprattutto se vivi a contatto costante con lui. Gli piace anche fare tardi, va detto, perché i martiri non sono santi e qualcosa sbaglia anche a prescindere dall’orientamento sessuale. Ma è un ventenne appena diventato ricco e costretto a confrontarsi con due tipi di razzismo diversi, glielo si potrebbe perdonare. L’allenatore del Nottingham, però, è Brian Clough, lo stesso del Maledetto United, un personaggio unico nel suo genere. Uno che ha fatto grande il Nottingham, che è stato tale solo sotto la sua gestione. Non gradisce le frequentazioni di Fashanu e glielo dice chiaramente. Lo racconta lo stesso tecnico nella sua autobiografia: “Gli ho chiesto dove andasse per prendere un po’ di pane, mi ha detto dal fornaio. Gli ho chiesto dove andasse se volesse della carne, mi ha detto del macellaio. Allora gli ho chiesto perché diavolo andasse in quei maledetti club per finocchi”. In questo contesto, l’avventura al Nottingham è un disastro: 3 gol in 32 partite. Clough lo scarica.

Inizia la caduta. A 21 anni, Fashanu si perde. Inizia a cambiare squadra, stagione dopo stagione. Scende sempre più in basso, lega dopo lega. Il Nottingham lo presta al Southampton: segna 3 gol in 9 partite, ma i Saints non lo riscattano, non hanno i soldi per farlo. Vive in una bugia costante: Peter Tatchell, un politico laburista che racconta di essere diventato suo amico, gli consiglia di fare coming out, ma Fashanu lo ritiene troppo pericoloso. Si rifugia nella Chiesa evangelica, che gli regala un periodo di stabilità ma condanna pesantemente l’omosessualità: la contraddizione continua. Dal 1982 al 1985 gioca on la maglia del Notts County, spera di convincere Clough a richiamarlo. Parte bene, poi subisce un brutto infortunio al ginocchio, da cui non riesce a guarire. Continua a vagare, tra alti e bassi: vola anche negli USA, per sottoporsi a un intervento chirurgico. Gioca con i Los Angeles Heat e gli Edmonton Brickmen. Ritrova il piacere e la capacità di fare gol, torna in Inghilterra, ma va male anche con Manchester City e West Ham. Nel 1990 è allenatore-giocatore dei dilettanti del Southall. Un suo amico di 17 anni si suicida, dopo essere stato scaricato dalla sua famiglia perché omosessuale. Fashanu è sconvolto, deve fare qualcosa. Decide di fare coming out.

Il primo campione del calcio a dichiararsi gay. Nell’ottobre del ’90, Justin Fashanu vende l’esclusiva al The Sun. “Sono una star e sono gay”. È uno scandalo, è il primo calciatore di alto livello a dichiarare la propria omosessualità, in un mondo tuttora machista fino all’esasperazione. Anni dopo, spiegherà di aver scelto il tabloid più scabroso d’Inghilterra per ampliare i destinatari del suo messaggio. Per farsi leggere proprio da coloro che sono meno aperti mentalmente: “Pensavo che se l’avessi detto al peggior giornale, non avrebbero avuto più molto da dire”. Invece in tanti, troppi, hanno parecchio da dire. Anche la comunità nera, che non prende bene queste dichiarazioni, e lo attacca. Persino suo fratello John. Sulle pagine di The Voice, lo rinnega pubblicamente. Justin è un outcast, un emarginato. Pensava di parlare a un mondo nuovo, ne scopre uno che è gretto e meschino. La sua spirale negativa nel calcio continua. Gira diversi campionati, in Inghilterra e non solo: gioca in Canada, in Scozia, in Svezia, ancora negli Stati Uniti, persino in Nuova Zelanda. La vecchia gloria non torna più, in compenso è sempre protagonista sui giornali scandalistici. Ha una discussa relazione con l’attrice Julie Goodyear, bisessuale. Dichiara di conoscere almeno altri dodici calciatori professionisti gay. Nel 1994 tira addirittura in ballo Stephen Milligan, astro nascente del partito conservatore trovato morto il 7 febbraio di quell’anno per un tentativo di asfissia autoerotica. È uno dei punti più bassi: l'Hearth of Midlotlhian, la sua squadra dell’epoca, lo caccia per comportamento disonorevole.

Una nuova vita negli USA. La carriera da calciatore è ormai finita, è chiaro. Da grande promessa a globe-trotter deludente il passo è stato fin troppo breve. Le porte in faccia, però, continuano a essere tante. E non solo dal mondo del football. Nel 1992, Fashanu trova l’accordo per condurre Loud’n’Proud, una rubrica radiofonica dedicata a giovani lesbiche e uomini gay. La BBC boccia all’ultimo la sua candidatura e affida il programma a una giornalista donna. Nel 1996, ancora la BBC, l’emittente che a inizio carriera lo aveva incensato, lo estromette dal premio come personalità dello sport dell’anno: tantissimi tifosi lo votano per e-mail, ma le loro preferenze vengono annullate ed escluse dalla produzione dello show. Appesi gli scarpini al chiodo, Justin nel 1997 si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti. Pensa al suo futuro, accetta di guidare i Maryland Mania Club. Una squadretta: gioca in seconda divisione in un Paese che non considera il calcio un vero e proprio sport. Ma Fashanu sembra felice: “Ha tanti amici, sta aiutando tanti giovani ragazzi”, dichiara il presidente A. J. Ali. L’ultimo atto di una vita sfortunata è alle porte.

L’accusa di stupro. Nel marzo del 1998, un diciassettenne di Ashton Woods accusa Fashanu. Dichiara alla polizia di essersi svegliato nel letto di Justin mentre quest’ultimo gli stava praticando una fellatio. Afferma di aver chiesto a Fashanu di poter dormire da lui, dopo una serata passata a bere alcol e fumare marijuana. Mentre dormiva, l’ex calciatore lo avrebbe violentato. Le accuse sono gravissime, anche perché la legislazione del Maryland dell’epoca è pesantissima: a prescindere dall’abuso sessuale, vieta sia i rapporti omosessuali che quelli non finalizzati alla procreazione (come quelli orali), anche se consenzienti. Sembrano ere lontane, ma parliamo di poco più di vent’anni fa. A tutto questo, sono da aggiungere il consumo di droga e la somministrazione di alcol a un minorenne. Fashanu è spaventato, inizialmente collabora con la polizia, ma il pomeriggio del 3 aprile le autorità non lo trovano più. È scappato, è tornato in Inghilterra, dove si nasconde col cognome da nubile di sua madre Pearl e cerca, senza fortuna, di contattare quei pochi amici che ritiene ancora di avere.

Il suicidio. La mattina del 3 maggio, il corpo esanime di Justin Fashanu viene trovato appeso in un garage abbandonato di Londra, che ha forzato nel cuore della notte. È suicidio, si è impiccato. Ha anche lasciato un biglietto di addio: “Ho capito di essere già stato ritenuto colpevole. Non voglio mettere in ulteriore imbarazzo i miei amici e la mia famiglia”. Già, la sua famiglia. Suo fratello John dichiara di aver ricevuto una telefonata il 2 maggio e di aver riattaccato non appena ha capito che si trattasse di Justin: “Ancora lui”. Forse un estremo tentativo di chiedere aiuto. Nel 2012, sempre John, che pure si è pentito di aver rinnegato il fratello, dirà che non era davvero gay, ma cercava soltanto attenzione. La sera del 2 maggio 1998, alcuni testimoni affermano di aver visto Justin Fashanu entrare nel Chariots Roman, una sauna gay nel quartiere londinese di Shoreditch. Non sembrava di cattivo umore, ma di lì a poco si suiciderà. Nel biglietto d’addio, per la cronaca, ha anche contestato la versione del suo accusatore: ha dichiarato che il rapporto sessuale c’è stato, ma consenziente. Cosa sia davvero accaduto, nessuno lo sa. Scotland Yard afferma di non aver ricevuto alcun mandato d’arresto nei suoi confronti, ma due indagini giornalistiche, del Times e della BBC, riferiscono l’esistenza di una richiesta di estradizione avanzata dal tribunale distrettuale della Howard County. L’inchiesta, ovviamente, muore con la scomparsa di Justin Fashanu. Onorato da morto, più che da vivo: il 19 febbraio 2020 è entrato nella English Football Hall of Fame. Un riconoscimento tardivo, l’espiazione di una colpa: perché Justin Fashanu, calciatore, campione, nero, gay, ha sbagliato tante scelte nella sua vita, ma è stato il primo ad avere il coraggio di dichiararsi. E per questo motivo è stato discriminato, offeso, denigrato, lasciato da solo. A distanza di 22 anni dalla sua morte, l’omosessualità nel calcio resta un tabù.

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