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La Superlega è l’all-in di club con l’acqua alla gola. O parte a settembre o non parte più

di Ivan Cardia
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Anni di trame, calcoli e ragionamenti. Poi l’annuncio arriva in piena notte, senza un logo vero e proprio, con dodici club fondatori sui quindici previsti e gli altri che per ora non si vedono neanche all’orizzonte. Sul piatto, il generico progetto di avviare una competizione per ultra-ricchi, senza panorami temporali certi (“nel più breve tempo possibile”), e l’utopistica promessa di voler tenere un piede in due o addirittura tre scarpe. È la fretta con cui la comunicazione è arrivata, a ridosso di un doppio appuntamento cruciale per il calcio europeo (il comitato esecutivo e l’assemblea UEFA), a tradire la Superlega per quello che a oggi è davvero.

L’all-in di dodici club con l’acqua alla gola. All-in mediatico, s’intende. Perché l’obiettivo è stanare la UEFA dalla sua sordità, non certo più virtuosa rispetto all’avidità dei grandi club denunciata da Ceferin. È una guerra tra ricchi, più o meno: qualcuno diceva che alla fine ci rimettono sempre i poveri. È una guerra tra nobili, più che altro, che vedono con timore un futuro in cui rischiano di essere squattrinati: alla Superlega partecipano i tre club italiani più prestigiosi, ma anche i più indebitati. Stesso discorso in giro per il Vecchio Continente: non è un caso che dall’aderire se ne guardino bene i tedeschi, l’Ajax, il Porto. Beninteso: è sempre una questione di soldi. Il PSG ne rimane fuori non perché sia buono e caro, ma perché ha altri interessi (per ora) da tutelare. Può permetterselo. Chi ha aderito no, e questo è il primo dato da considerare: non ci sono buoni o cattivi in questa storia. Semmai, società che cercano di uscire da un periodo economico devastante, al quale peraltro erano già arrivate nell’ambito di una notevole bolla speculativa. Sono andate parecchio in là, nei loro programmi: per questo, arrivati a tanto non è più un bluff, ma un all-in vero e proprio. Che la UEFA in questo momento sta chiamando.

O parte a settembre o non parte più. Ceferin l’ha detto chiaro e tondo: i legali di Nyon stanno valutando se è possibile escludere sin da subito le società interessate dalla Champions League. Tra oggi e domani i club italiani, inglesi e spagnolo si vedranno senza i “traditori”. Non mancherà chi farà proposte di questo tipo. Sono giuridicamente complicate, forse impossibili, soprattutto a stagione in corso. Per la cronaca, il presidente dell’UEFA conta pure sull’appoggio della FIFA, più sfuggevole di quel che sembra: nessuno dimentica che fino a poco tempo fa Infantino o Ceferin litigavano sul progetto di mondiale per club a 24 squadre, poi naufragato proprio per il boicottaggio degli europei. Ma torniamo a noi: oggi l’UEFA e i club che restano nel suo alveo (perché contrari alla rivoluzione o perché non invitati, ma qui s’aprirebbe una parentesi parecchio lunga) ragionano sulla possibilità di estromettere i 12 scissionisti. Questi ultimi non hanno indicato una data vera e propria per l’avvio della Superlega. Per forza: nonostante la potenza mediatica di un annuncio del genere, la competizione è a tutti gli effetti in una fase embrionale. Ma è davvero pensabile che possa andare oltre settembre? No, perché è difficile immaginare un futuro in cui la Juve e le sue undici sorelle giochino nei campionati nazionali e nelle coppe europee senza aver prima sgombrato una volta per tutte il campo dallo spettro della lega solo per ricchi. Così, delle due l’una: o a settembre la Superlega parte, e il calcio sarà cambiato davvero (in peggio). O a settembre il calcio sarà quello di oggi, la Superlega derubricata in via definitiva dai sogni nel cassetto dei nobili, e in qualche modo i ribelli e l’impero chiamato UEFA saranno riusciti a dividersi la posta.

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