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Diario da Rio - Il Brasile in casa materialmente è stato battuto solo da una bambina. Non così innocente

di Tancredi Palmeri
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Il Perù che entra nel Maracana per ritrovare dopo 44 anni quella sensazione unica di essere migliore di tutti gli altri, sa che si ritroverà di fronte all’impresa al limite dell’umano sportivo di costruire una vittoria in cima alla leggenda di un avversario troppo più grande, di un Brasile troppo più imponente per permettere all’avversario di vivere e prosperare al di sopra delle proprie possibilità.
Eppure il Perù, dal basso del poco di cui disponde, sa cosa vuol dire domare l’impossibile: le edificazioni cinquecentesche sui 2500 metri del Machu Picchu che si insinuano tra le rocce a picco e il paesaggio rarefatto, e che ancora sopravvivono, sono la dimostrazione oltre la logica di come il Perù non sia meglio degli altri, ma che al Perù, in principio, nulla sia precluso.
Per artigliare il proprio terzo titolo della Copa America, la Blanquirroja avrà bisogno di una tigre. Di El Tigre, Ricardo Gareca, ct con faccia da rockstar disfatta dagli eccessi, non a caso è proverbiale la sua somiglianza con Steven Tyler degli Aerosmith, e però mente e mano da saggio conoscitore della vita e degli uomini, che si prepara alla sofferenza che un obiettivo nemmeno ipotizzabile richiede. Gareca non ha mai avuto quello per cui ha lottato. Un argentino, e allora attenzione Brasile. Un argentino che tutto il mondo dovrebbe ringraziare. Perché è per lui che abbiamo potuto vivere e vedere l’eterno gol di Maradona all’Azteca. Anche se lui nei Mondiali del Messico 86 non c’era. Escluso, da giocatore. Dopo che nell’ultima partita decisiva delle qualificazioni, fu lui a dare in extremis a 9 minuti dalla fine il passaggio all’Argentina con il suo gol del pareggio. Contro, ma guarda i casi della vita, proprio il Perù.
L’artiglio del tigre, e il passo del guerriero. Di Paolo Guerrero. L’idolo di tutto il Perù. Il Depredador, battezzato con il destino dalla nascita. Perché il suo nome non è Paulo, come dovrebbe essere in lingua spagnola in Sudamerica. Ma Paolo, con la o in mezzo, all’italiana. Perché lui, nato nel 1984, è stato formato nel solco di Paolo Rossi, di cui il padre era adepto sin dai Mondiali in Argentina e poi in Spagna, e in onore del quale fu battezzato con il nome declinato in italiano.
O forse sarà necessaria l’innocenza, non così innocente, di una bambina. Nel 1975 il Perù vinceva la sua seconda e fin qui ultima Copa America.

Non c’era sede fissa della competizione a quel tempo, partite di andata e ritorno. Il Perù vinse in finale contro la Colombia. Ma la sua impresa impossibile, la sua edificazione eterna fu costruita in semifinale. Con il Brasile. Andata, vittoria 1-3 a Belo Horizonte. Ritorno, sconfitta a Lima. Fu necessario, come predicavano le regole del tempo, il sorteggio.
Ma in quel tempo la sede della Conmebol era in Perù. Il presidente Salinas della Conmebol era peruviano. E il sorteggio fu affidato alla mano di una bambina, Veronica. Non una qualsiasi. La figlia del presidente Salinas. E si dice che una delle due palline, quella che contenesse il nome del Perù, fu previamente raffreddata in un frigorifero più gelato di un inverno del Machu Picchu. La mano innocente di Veronica Salinas, forse non era così innocente. Il Perù arrivò in finale, e vinse.
Non sarà la stessa cosa domenica. Perché il Brasile non perde da tempo immemore in casa un partita competitiva contro un avversario sudamericano: che sia Copa America, o Mondiali, o qualificazioni sudamericane.
Non perde esattamente da 44 anni,. Dal 1975. Da Brasile-Perù 1-3. E allora, ci sono vette impossibili per tutti, che per il Perù sono solo un’altra sfida appoggiandosi alla forza del passato.

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