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#PlayersTogether: dalla Premier un esempio per le star della Serie A. Altro che ridursi gli ingaggi

di Ivan Cardia
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© foto di Antonello Sammarco/Image Sport

“Tutti devono fare la loro parte in questa crisi”. Nel Regno Unito, la politica aveva preso posizione sul ruolo dei calciatori. Con quelle parole Matt Hancock, segretario di Stato alla Salute, aveva chiaramente detto alle star della Premier League di tagliare i propri stipendi. “È la prima cosa che dovrebbero fare”. Parole che in molti hanno letto come un vero e proprio stigma nei confronti dei super-pagati calciatori d’oltremanica. Che hanno risposto, eccome se hanno risposto.

#PlayersTogether. È questo l’hashtag con il quale, questa sera, i campioni del massimo campionato inglese hanno detto la loro parola. Forte, chiara, condivisa. Dai campioni del Liverpool primo in giù, tutti hanno fatto la loro parte. Al di là delle trattative con i rispettivi club di appartenenza, hanno lanciato una campagna di raccolta fondi, hanno messo i loro soldi a disposizione del NHS, il sistema sanitario britannico. Non sappiamo quanti, ovviamente. E le solite distinzioni ci sono: il Kun Aguero non guadagna certo come il terzo portiere del Norwich. A ognuno il suo, ma tutti si sono messi in gioco: hanno detto al Paese che li ospita che loro ci sono, non vivono lontano dalla dolorosa realtà dei propri concittadini. E hanno mandato un esempio. Anche alla nostra Serie A.

Tagliare o no gli stipendi? Al di là delle svariate ipotesi sulla data del ritorno in campo, è questo, ormai da giorni, il principale tema d’attualità per il calcio italiano. La Juventus è stata l’unica a raggiungere, in silenzio, un accordo con i propri tesserati, mentre gli altri 19 club ci stanno lavorando in maniera individuale, dopo aver visto saltare, non senza qualche evitabile ed esecrabile polemica, il banco della trattativa collettiva con l’Assocalciatori. È un tema d’attualità, per tante società che dall’emergenza Coronavirus avranno un pesante contraccolpo economico. A livello mediatico, però, ha avuto un effetto boomerang: da un lato i calciatori che non vogliono ridursi lo stipendio (non è vero, ma questo è il messaggio che per molti sta passando), dall’altro i club che vogliono provare a risparmiare fino all’ultimo centesimo (e non vogliamo insinuare che non sia legittimo). Tutti nel torto, di fronte all’infermiere che fa turni massacranti a rischio contagio, o anche all’operaio in cassa integrazione che si interroga sul come mandare avanti la propria casa. A cui, in questa situazione di crisi, interessa meno di zero se la propria squadra risparmierà o meno qualche milione sugli ingaggi dei propri calciatori.

Il bene si fa ma non si dice. È una massima di Gino Bartali, Giusto tra le Nazioni. A volte, però, il bene si fa e si dice. Perché può essere un modo per tenere i tifosi vicini al calcio. Una strada per tenere vivo quell’affetto, non trasformarlo in disprezzo per una casta di milionari indisponibili a qualunque sacrificio. Non è così, perché sappiamo che tanti calciatori, tante società, dalle serie minori al massimo campionato, si stanno prodigando per il proprio territorio, stanno donando a chi ne ha bisogno. Sull’esempio dei propri colleghi d’Inghilterra, sarebbe bello che anche loro mandassero un messaggio di questo tipo. Pubblico, unitario, compatto. Un modo per dire: noi ci siamo, facciamo la nostra parte. Siamo con voi. A prescindere da ogni trattativa per ridurre i propri ingaggi. Quella sì, da condurre nel maggior silenzio possibile. Perché la forma, alle volte, è anch’essa sostanza.

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