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Bergamo piange, Brescia anche: Antologia del Fiume Oglio. Come farà il calcio ad andare avanti?

di Andrea Losapio
Nato a Bergamo il 23-06-1984, vive a Firenze. Inviato e prima firma per TuttoMercatoWeb. Dal 2012 collabora per il Corriere della Sera
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© foto di Lorenzo Di Benedetto

Bergamo ha qualcosa in comune con Roma. È appoggiata su sette Colli, niente a che vedere con Aventino, Esquilino o Palatino. Il principale nella modernità è Colle Aperto. Tutt'intorno si sviluppa quello scrigno di medievalità e stupore che chiunque fotografa quando atterra a Orio al Serio, scende dalla scaletta e si trova davanti la spianata che porta a Città Alta. Maestosa e austera, con le torri in bella vista, oltre alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Chi viene dall'estero Bergamo se la ricorda come un'appendice di Milano, come Parigi Beauvais, Dusseldorf Weeze oppure, in tempi differenti, Girona e Barcellona. E da qualche mese per l'Atalanta, nello spettacolo più bello dei suoi centotredici anni di storia, ai quarti di Champions League come in un film troppo bello per essere vero. Il 19 febbraio scorso i nerazzurri distruggevano il Valencia, dopo qualche incontro - e nessuno scontro, fortunatamente - tra tifosi sulla metropolitana, con gli spagnoli ben più canori dei timidi bergamaschi, almeno prima di entrare a San Siro. Doveva essere il massimo della felicità per chiunque, ma la città doveva ancora conoscere il motivo per cui passerà alla storia, anche fra 50 o 100 anni, questo è da crederlo.

Perché nei libri dei nostri bisnipoti ci sarà la terribile pandemia del 2020, con focolaio Codogno e epicentro che si sviluppa sulle due sponde del fiume Oglio. Da una parte Alzano e Nembro, sette km di distanza da Bergamo e un ospedale che prima chiude e poi riapre, pur sapendo di un'infezione che poteva essere letale. Dall'altra Orzinuovi, provincia di Brescia, a un passo dalla cremasca e due dalla bergamasca, che diventa un Lazzaretto e coinvolge anche Crema e altri centri abitati nell'incredibile corsa al virus. Dove sono tutti? Dormono sulla Collina, scriveva Edgar Lee Masters, nel suo capolavoro "Antologia di Spoon River". Cantata poi magistralmente da Fabrizio De André in "Non al denaro non all'amore né al cielo". I morti di Bergamo sono vecchi, per la maggior parte, gente con qualche patologia, forse due o tre contemporanee. Ma sono esseri umani, non freddi numeri. Sono steward dello stadio che saluti, farmacisti che diventano birrai, giornalisti, alpinisti, sindaci, infermeri e medici. Sono i nostri nonni che si sarebbero spenti fra un anno, forse cinque, magari dieci. Basta essere giovani per sentirsi al sicuro?

Nell'antologia del Fiume Oglio, dove le distanze sono davvero fioche, sia nel pensiero che in un dialetto troppo difficile da perdere fino in fondo, la storia vera è quella non scritta. L'anno scorso i morti di Bergamo erano 98. Quest'anno sono stati 446. Solo in città, senza contare lo sterminio che è avvenuto verso la Valle Seriana, da Torre Boldone e Villa Di Serio arrivando fino a Castione della Presolana. Comuni piccoli che vedono centinaia di morti - ciascuno - e che magari sono contati come 10-12 di Coronavirus, gli altri compilati diversamente perché c'è chi muore in casa. È l'emblema di chi non vuole lasciare questo mondo nella solitudine, perché se un luogo comune ci racconta che tutti muoiono da soli, dall'altro lato il dolore della vita ci spiega che per essere felici bisogna essere in due. Anche nell'ultimo momento. C'è un mondo che si chiama Bergamo e Brescia, il resto d'Italia per ora sta evitando questo immenso dolore, questa sciabordare delle ambulanze, questo continuo e lacerante spiegarsi di sirene. La stagione della caccia al responsabile si è aperta anche troppo in anticipo, ovunque. Quasi come se il sacrificio di chi non c'è più non sia abbastanza meritevole di qualche settimana di silenzio, di raccoglimento e di cordoglio. C'è chi strilla dai suoi pulpiti, con il suo sciamare inverecondo e non adatto a chi fa il politico di professione, chi inquina l'informazione, chi punta il dito. La verità è che la Lombardia è pari a Wuhan, forse l'Italia si salverà - parzialmente - da questo terribile virus. Speriamo.

La cosa più importante fra le meno importanti, il calcio. A nessuno interessa più granché, se non ai club stessi, costretti a fare i conti della serva per non rischiare la bancarotta. Tutto giusto. Verrà tolto il fair play finanziario, sarebbe ora di abolire il decreto dignità - che ha tolto proventi a praticamente tutto lo sport, oltre a non rappresentare una scelta corretta per il lavoro di tutti - cercata una soluzione per evitare che l'epidemia torni a colpire duramente. Il calcio è in pericolo? Sì. È pericoloso ripartire senza tamponi e senza tutta la possibile prevenzione? Altrettanto. Alla fine il denaro avrà la meglio e tutti giocheranno a porte chiuse, quando l'emergenza si sarà calmata. A Bergamo, che il 10 marzo viveva il momento più bello della sua storia calcistica, non frega più niente a nessuno. Perché chi non dorme sul Colle preferisce il pianto.

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