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Mario Corso, l'atipico del calcio italiano

di Redazione TMW
Fonte: Testo di Francesco Parigi per storie di calcio
Verona, 25 agosto 1941 – Milano, 20 giugno 2020 «Quando Suárez era in forma sapevamo di non perdere, ma quando Corso era in forma sapevamo di vincere.» Carlo Tagnin, centrocampista dell'Inter dal '65
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E’ stato Mandrake, ma anche il “participio passato del verbo correre”. E’ stato un giocatore incedibile nonostante finisse ogni estate al primo posto nelle liste di cessione, è stato considerato un genio ed un lavativo, il tormento e l’estasi di una generazione di tifosi nerazzurri, il prototipo degli “atipici”. E stato forse il giocatore che più marcatamente di qualunque altro ha usato un solo piede, ma in maniera così meravigliosa che il Commissario Tecnico di Israele, dopo una partita delle qualificazioni ai Mondiali del Cile, arrivò a dire “siamo stati sconfitti dal piede sinistro di Dio”.

Quella sera, a Tel Aviv, Mario Corso, ventunenne promessa dell’Inter, aveva letteralmente ribaltato l’esito della partita trascinando con due reti la squadra azzurra alla vittoria per 4-2 dopo un primo tempo chiuso con Israele in vantaggio per 2-0. Sulla panchina azzurra quella sera accanto a Giovanni Ferrari siede anche Helenio Herrera che è destinato ad essere l’uomo del suo destino nel bene e nel male.

Nonostante questo inizio prodigioso Mario Corso, “Mariolino” per i suoi tifosi , non avrà fortuna in maglia azzurra, confermando la sua natura di campione “croce e delizia” di tifosi ed allenatori.
Corso è un genio, è unico in tutto. Veste la maglia numero 11, ma non è un’ala sinistra, nè un attaccante; come centrocampista risulta spesso un lusso, in quanto non è certo uno che si sacrifica in fase di contrasto, ma quando è in giornata è entrambe le cose assieme: un grande centrocampista ed un grande attaccante.

Usa il piede sinistro ora come un bastone, ora come un uncino, ora come un pennello, ora come una stecca da biliardo; i suoi lanci sono millimetrici, i suoi tiri a volte secchi e potenti a volte “liftati” e morbidi; inventa la “punizione a foglia morta”, che esegue in maniera ineguagliabile : colpo sotto con il piede sinistro e la palla supera la barriera spegnendosi nell’angolo alto lontano dal portiere, dolcemente, quasi con studiata lentezza.

Così Corso ricorda la sua specialità: “Era un mio colpo istintivo che mi riusciva con grande naturalezza grazie alla sensibilità con cui toccavo la palla. Ad accorgersene fu Nereo Marini, uno dei miei primi allenatori che ebbi quando ero ancora giovanissimo e giocavo nella squadra della mia città”.

Nato a San Michele Extra, alle porte di Verona, Corso arrivò all’Inter insieme a Mario Da Pozzo, in una operazione di contorno a Claudio Guglielmoni che veniva considerato il vero talento dalla squadra del suo paese, l’Audace San Michele, a diciassette anni, nel 1958, entrando subito nel gruppo dei titolari e debuttando il 23 novembre dello stesso anno in un Inter Sampdoria 5-1 quando Bigogno lo chiama in prima squadra per sostituire Skoglund. Sette giorni dopo, a Bologna, la sua prima rete in serie A.

Nella “Grande Inter” gioca dove lo porta l’estro, si piazza fra il centrocampo e l’attacco e di quella squadra fantastica è il simbolo più inconfondibile, è lui il “cocco” di Lady Erminia, la moglie di Angelo Moratti, che ne asseconda tutti gli estri. La convivenza fra il”Mago” e Mandrake non sarà mai pacifica; Herrera, abituato a primeggiare, non tollera che vi sia qualcuno che lo superi nella considerazione dei Moratti e ogni anno, buono e meno buono, mette il nome di Corso in cima alla lista dei giocatori da cedere, ottenendo sempre un bonario, ma deciso, rifiuto dal Presidente che non accetta neppure di prendere in considerazione la cessione di quello che lui considera un genio. “Non andavo a San Siro solo per lui”- dirà una volta Lady Erminia in un intervista -“ma se c’era lui ci andavo più volentieri. Ero certa che mi sarei divertita”.

Non è tuttavia solo un soprammobile, un lusso; nella storia dell’Inter segna gol fondamentali : quello che nei supplementari contro l’Independiente, in un Santiago Bernabeu quasi vuoto sotto una pioggia torrenziale, regala alla squadra nerazzurra la prima Coppa Intercontinentale, oppure il gol su punizione a “foglia morta” che apre la famosa rimonta con il Liverpool a San Siro l’anno dopo.

Ma il capolavoro della sua carriera è la stagione 1970-71 quando, partito Suarez, Corso prende in mano l’Inter, diventandone dopo tanti anni finalmente l’indiscusso “regista” e con una stagione straordinaria per qualità e continuità la trascina ad una incredibile rimonta sul Milan partita da -7 e conclusa con la conquista dell’undicesimo scudetto nerazzurro.

E’ quello l’anno della sua apoteosi alla vigilia dei trent’anni. Il derby di ritorno, decisivo per l’assegnazione del titolo, lo vede assoluto protagonista, lui, che secondo Gianni Brera soffriva particolarmente quella partita, ne è l’autentico mattatore: prima segna il gol del vantaggio con una punizione beffarda che aggira la barriera quasi rasoterra sorprendendo Cudicini che si aspettava la classica “foglia morta”, poi vince un contrasto da ovazioni con Gianni Rivera e lancia il contropiede del definitivo 2-0.

La sua stagione è tanto straordinaria da riportarlo addirittura nel giro azzurro dal quale è uscito alla sua maniera ai tempi del Mondiale del Cile, nel 1962: Giovanni Ferrari, il C.T. azzurro, lo ha appena escluso dalla lista dei 22 e sta seguendo dalla tribuna di San Siro l’amichevole fra l’Inter e la nazionale cecoslovacca che sta preparandosi al Mondiale, quando Mariolino Corso col suo sinistro magico inventa un gol fantastico, un tiro splendido dopo una serie di dribbling in un fazzoletto d’erba che strappano l’applauso anche agli avversari; dopo quella prodezza Corso cerca con gli occhi il C.T. in tribuna e gli dedica un plateale gesto dell’ombrello. La cosa fa scalpore, i perbenisti insorgono e la maglia azzurra da allora in poi diventerà irraggiungibile per Mandrake.

Ma non è questo l’unico gesto clamoroso di una carriera dal punto di vista disciplinare almeno turbolenta. Su di lui fioriscono gli aneddoti: una volta durante la consueta arringa pre-partita di Helenio Herrera che annuncia una vittoria certa, la sua vocetta carogna consiglia il Mago, in estasi catartica , di sentire “cosa ne pensano nello spogliatoio accanto” provocando una risata liberatoria che spoglia HH del suo fascino mistico.

Ha la fama di “mangia-allenatori” e si racconta che sia lui a guidare anche la rivolta contro l’altro Herrera, Heriberto, che culmina nell’esonero del tecnico paraguayano a favore del più malleabile Invernizzi, nell’anno della grande rimonta sul Milan. Il motivo ? HH2 pretendeva che si allenasse come e quanto Bedin.

Infine la sera dell’1-7 col Borussia, passata alla storia per la lattina che avrebbe colpito Boninsegna, viene espulso dall’arbitro Dorpmans, che lo accusa di averlo preso a calci nel concitato finale, e viene squalificato per sei turni nonostante l’annullamento della partita. Corso non ammetterà mai la sua colpa e durante un’intervista anni dopo parlerà della sua maxi-squalifica come di un necessario compromesso, per bilanciare la sentenza che, facendo ripetere la partita, di fatto riammetteva l’Inter alla Coppa dei Campioni.

La resa dei conti arriva però nell’anno in cui, dopo due annate deludenti con Invernizzi, il presidente dell’Inter, Ivanhoe Fraizzoli, decide di richiamare all’Inter Helenio Herrera, che a Roma non ha combinato granchè, ma che a Milano ha ancora molto credito. Stavolta non c’è più Moratti e la lista di proscrizione del Mago ha al primo posto, come sempre, il nome di Corso che finisce al Genoa tornato in Serie A.

Sembra che la partita fra i due sia chiusa, ma come nei fumetti Mandrake riesce ad avere l’ultima parola : quando l’Inter gioca a Marassi, Corso le segna un gol addirittura di testa, un’autentica rarità per uno come lui che quando giocava sembrava davvero portare il cappello a cilindro. Nel 1974/75, con il Genoa mestamente caduto in serie B, chiude con tre presenze la sua ultima stagione da professionista.

Successivamente, segue a Coverciano il supercorso per allenatori, che termina nel 1977. Allena inizialmente la primavera del Napoli (1978-79), quindi il Lecce ed il Catanzaro. Infine il grande rientro alla squadra del cuore, l’Inter, dove fa da chioccia alla squadre primavera. Nel 1985-86, il presidente Pellegrini lo chiama ad allenare la prima squadra, al posto di Ilario Castagner, traghettando l’Inter al sesto posto, unica presenza da allenatore in serie A per poi rientrare nei ranghi di osservatore.
Muore a Milano il 20 giugno del 2020, ascoltate il podcast dello speciale a lui dedicato da TMW Radio

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