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Inter, lettera di Zanetti: "Spero che il futuro sia bellissimo. Costruiamolo insieme"

di Lorenzo Di Benedetto
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© foto di Antonello Sammarco/Image Sport

Quando Julio ha afferrato quella palla, l’arbitro aveva già dato i tre minuti di recupero. Ho capito che era fatta. Ho iniziato a piangere. Il treno delle emozioni, delle fatiche, dei ricordi, delle sofferenze era finalmente arrivato in stazione. Mi sono voltato, ho detto a Samuel: “Abbiamo vinto, è nostra”. Walter non ha fatto una piega: “Mancano ancora tre minuti, gioca”.

Il tempo. Ho imparato a misurarlo, a pesarlo, a sentirmelo addosso. Tre minuti. Tre minuti o 5.382 giorni? Da Inter-Vicenza, 1995, al Bernabeu. Tre fischi lo hanno dilatato, compresso e poi fatto esplodere. Nel mio cuore e in quello di milioni di interisti. Valgono meno gli sforzi fatti, se perdi? No. Mi sono allenato meno bene, meno intensamente, quando non arrivavano le vittorie? No. Ho mai lesinato sforzi o energie, mi sono mai tirato indietro? No.

La sera del derby di Champions League con il Milan sono arrivato a casa, da Paula, stravolto. Erano state due settimane di tensione indicibile. Ad Appiano Gentile, a Milano, tra la gente per strada, tra gli amici, ovunque: nei pensieri c’era solo quella doppia partita. Due pareggi, l’eliminazione. Avevamo lasciato tutto sul campo. Tutto. C’erano già state delusioni forti, ma quella sera il rammarico era profondo e doloroso.

Eppure io sono sempre stato una persona positiva, quel genere di capitano che cerca di trasmettere a tutti i compagni un messaggio diretto: il lavoro paga. E dalle difficoltà bisogna ripartire. Non molliamo. Allenamento dopo allenamento, corsa dopo corsa: insistere, cadere, migliorare. Dare tutto, sempre. Difficile raccontarselo in quei momenti? No, ci ho sempre creduto. Fermamente.

Avete presente quella frase: vincere aiuta a vincere? Quando Ivan Cordoba ha alzato la Coppa Italia nel 2005 per noi contava come una Champions. Lì iniziava qualcosa di importante, una consapevolezza: il percorso era quello giusto, poteva durare nel tempo: stagioni, anni. Arriva quel giorno e dici: ok, adesso non voglio più perdere. E infatti siamo andati a Torino a prenderci la Supercoppa Italiana, in una partita che non voleva finire mai.

I minuti di recupero sembrano sempre scorrere più lenti quando vinci, vanno come il vento se devi rimontare. Però se ci credi fino alla fine, anche pochi istanti possono bastare. Con la Sampdoria siamo riusciti a ribaltare tutto in meno di sei minuti: gol, palla al centro. Gol, palla al centro. Gol. Nulla è impossibile.

E poi capita che il tempo si fermi. Al 41’ del secondo tempo di Siena-Inter del 16 maggio passano meno di due secondi da quando Alejandro Rosi fa partire il suo tiro-cross a quando il pallone esce al di là del secondo palo, sfiorandolo. L’ho calcolato: 1 secondo e 8 decimi. Julio Cesar immobile, noi tutti fermi. Mi sono voltato verso Maicon e l’ho visto smorto. Si è messo le mani sulla faccia, il mio cuore ha ripreso a battere. Fuori.

Era una finale anche quella, come tutte le partite dell’ultimo mese di quella stagione. Anche se per arrivare lì, siamo dovuti passare da... Kiev. Sento ancora le parole di José negli spogliatoi a fine primo tempo: “Siamo fuori dalla Champions”. Abbiamo rischiato tutto. Fuori Chivu, dentro Balotelli. Fuori Cambiasso, dentro Thiago Motta. E poi fuori Samuel, dentro Muntari. Abbiamo finito la partita con centrali di difesa Lucio e... il sottoscritto. Era però il segnale: quella squadra era disposta a rischiare, a dare tutto fino alla fine. Un momento eri fuori, un secondo dopo c’era Mourinho che correva in campo ad abbracciare Julio.

Io invece correvo ad abbracciare i compagni in panchina, dopo i gol. Ho sempre pensato che quelli che giocano di meno siano i più importanti per il gruppo, sempre pronti ad aiutarti nel momento del bisogno.

Più si avvicinava il maggio 2010 più ci sentivamo come i piloti di Formula1: non potevamo sbagliare una curva. Si giocava sempre, gli allenamenti erano l’occasione per tenere alta l’attenzione. Però poi la sera prima delle partite io dormivo, qualcun altro, come Cambiasso, faceva molta più fatica a prendere sonno.

Della partita di Madrid ho tanti flash che illuminano il mio volto, un po’ come quando ho alzato la coppa. Quando siamo usciti per il riscaldamento e ho visto il settore dei tifosi dell’Inter, stentavo a crederci: non c’era un posto vuoto. Mi sono detto: sono qui per noi, non possiamo deluderli. Durante l’intervista post-partita mi hanno poi fatto vedere le immagini di Milano. Piazza del Duomo piena, la gente per strada impazzita di gioia. Mi sono commosso, perché ho realizzato che la mia felicità, quella di tutti i miei compagni, era soprattutto quella del nostro popolo interista.

Avete mai visto uno stadio aperto e pieno di persone all’alba? Credo che quello di San Siro sia stato il caso più straordinario della storia. Siamo atterrati a Milano e siamo andati a portare la coppa al Meazza. I tifosi ci hanno aspettato fino alle sei del mattino. Ho i brividi, non andranno mai via. Era pura gioia: nulla di costruito, solo un abbraccio genuino. Solo il dirci: sì, è finalmente tutto nostro. Tornare a casa è stata un’impresa, con le ali di folla a scortare le nostre macchine.

Del tifoso nerazzurro ho sempre ammirato la resilienza, la capacità di starti vicino. L’empatia, fin dal mio arrivo, è stata naturale. Gli interisti sono speciali: sempre presenti, trascinanti, con una profondità di sentimento fuori dal comune. Ed è anche per questo che quando il mio tendine d’Achille si è strappato, a Palermo, mentre mi accompagnavano negli spogliatoi, pensavo: ok, tra qualche giorno mi opero, poi inizio la riabilitazione e tra qualche mese torno in campo. Lo devo a me stesso e al popolo nerazzurro, dobbiamo salutarci come si deve.

Avevo 39 anni. Per tanti, quel giorno, la mia carriera era arrivata alla fine. Non avevo mai patito un infortunio così tosto, ma non mi sono spaventato, non ho fatto drammi. Mi sono rimesso al lavoro, passo dopo passo, fino ad arrivare a Inter-Livorno, al mio ritorno in campo a meno di 200 giorni dall’infortunio. Il boato che mi ha accolto quel giorno mi ha ripagato degli ultimi sforzi. Una volta rientrato negli spogliatoi ho detto: ok, questa sarà la mia ultima stagione.

Il tempo e l’amore sono l’ascissa e l’ordinata che racchiudono la traiettoria della mia vita. Ho sposato Paula, che conoscevo fin da quando giocava nella squadra di basket del mio quartiere, quando eravamo ragazzi. Il pallone l’ho amato ancor prima, quando lo inseguivo sui campi di terra battuta in Argentina mentre urlavo la telecronaca dei miei sogni: la nazionale, la Serie A. Fantasticavo, ma volevo anche ripagare i sacrifici dei miei genitori. Un insegnamento, quello della mia famiglia, che sono riuscito a tradurre con Paula nella Fundacion Pupi: un tentativo di dare un futuro migliore a tanti bambini.

Io di figli ne ho tre: Sol, Ignacio e Tomas. In questi giorni capita di spendere i pomeriggi con loro, sul divano, a rivedere le partite del 2010. Guardavamo il derby del 2-0, pochi giorni fa, e dicevo a Tomy, che non mi ha mai veramente visto giocare: “Attento a cosa fa Milito adesso”, “Occhio a questa punizione di Pandev”. E poi ci abbracciamo tutti. Stanno studiando la nostra storia.

Che è importante, fondamentale. La porto con me ogni giorno in quello che faccio. Sono arrivato nel 1995 con le scarpe da calcio in un sacchetto di plastica e ora sono il vice presidente di quella società. È un percorso straordinario, ma che comporta grandi responsabilità. Ho studiato, metto il mio cuore, la mia esperienza, la mia competenza per valutare tutto quello che passa sulla mia scrivania. È più complicato di quando dovevo correre dietro a un pallone, ma enorme: ho ancora la possibilità, in prima persona, di lavorare per costruire il futuro di questa società.

Cerco di farlo con delle stelle fisse a cui guardare: i tifosi nerazzurri, la nostra storia, la maglia nerazzurra, le sofferenze e le gioie dalle quali siamo passati. Penso al futuro, voglio che sia bellissimo per noi interisti.

Continuiamo a costruirlo, insieme.

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