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Tabula rasa

di Marco Ceccarini
per Amaranta.it
Daniele Buffa/Image Sport
Daniele Buffa/Image Sport

Livorno – Oggi c’è un grande sconfitto nel calcio italiano. Si chiama Carlo Tavecchio e fino a questa mattina era il presidente della Figc, la federazione calcistica nazionale. E’ il presidente della mancata qualificazione dell’Italia ai prossimi mondiali in Russia dell’estate 2018, ma Tavecchio, più che per questo, risulta sconfitto soprattutto per il modo in cui è uscito di scena.

Se Tavecchio si fosse presentato ai giornalisti, dopo la partita con la Svezia che è costata l’eliminazione, scusandosi e rassegnando le dimissioni pur evidenziando di non avere una responsabilità tecnica, si sarebbe accattivato delle simpatie e forse avrebbe trovato anche qualche sostegno. Ma la sua indisponibilità a rimettere l’incarico e lo scaricare tutto sull’allenatore Giampiero Ventura, come se il presidente non avesse quantomeno una responsabilità oggettiva, lo hanno reso semplicemente indigesto e non riproponibile per l’opinione pubblica.

Furente, rancoroso, incomprensibile, nel consiglio federale di stamani, lunedì 20 novembre, ha attaccato il presidente del Coni, Giovanni Malagò, e ha parlato di sciacallaggio politico e di tradimento di uomini che gli avrebbero voltato le spalle, alludendo al presidente della Lega dilettanti Cosimo Sibilia e al vicepresidente dell’Uefa Giancarlo Abete. E’ stato surreale quando ha detto che, se invece di sbattere sul palo, la palla fosse entrata in porta, lui adesso sarebbe il salvatore della Patria, aggiungendo che, così come non sarebbe stato il salvatore, ora non può diventare il parafulmine essendo lui sempre lo stesso uomo.

Stamani l’ormai ex presidente federale ha dimostrato di non avere capito che nella sua posizione le dimissioni erano un atto dovuto. Se una federazione come quella italiana, che esprime una Nazionale tra le più titolate al mondo, non centra l’obiettivo della qualificazione alla fase finale di un mondiale, che è un obiettivo minimo, significa che occorre mettere un punto ed andare a capo, al di là della percentuale di responsabilità diretta del presidente.

Se oggi Tavecchio esce sconfitto dal consiglio federale, tuttavia, non è perché qualcun altro ha vinto. E’ infatti l’intero sistema calcistico nazionale che ha subito una disfatta. Escono sconfitti, dalla mancata qualificazione, i suoi equilibri di potere, i suoi rapporti interni, i suoi meccanismi, le alleanze ed i compromessi su cui poggia. Non ci sono dei vincitori, dunque, nel caso Tavecchio, ma solo dei perdenti, a cominciare dal consiglio federale che al momento rimane in carica.

Quando nel 1958 l’Italia non si qualificò ai mondiali di Svezia, cedendo il passo all’Irlanda del Nord, la federazione venne commissariata. Ottorino Barassi, che non era l’ultimo dei dirigenti sportivi, dovette lasciare il posto a Bruno Zauli, che dette subito avvio a una profonda riforma del sistema a cominciare dalla riorganizzazione della piramide calcistica e dalla riduzione del numero degli stranieri nei campionati professionistici. E lo stesso accadde dopo il 1966, con l’eliminazione al primo turno dai mondiali d’Inghilterra a causa dell’inopinata sconfitta contro la Corea del Nord, quando il presidente Giuseppe Pasquale si fece da parte lasciando il posto, l’anno successivo, al più giovane Artemio Franchi che, in breve, ridusse le squadre di Serie A da diciotto a sedici, impose dei forti cambiamenti costringendo i club professionistici a trasformarsi in società di capitale ed attuando il blocco degli stranieri per favorire la crescita dei settori giovanili. Il risultato fu che la Nazionale italiana, ai mondiali del 1970 in Messico, arrivò in finale a contendere il titolo al Brasile, a dimostrazione che quello che mancava non era il potenziale tecnico ed atletico dei giocatori, ne’ la capacità tattica degli allenatori, ma il porre in sintesi costruttiva e positiva queste componenti, garantendo serenità, fiducia e un’organizzazione federale degna di tal nome.

Quello che serve oggi, dopo la mancata qualificazione e le dimissioni prima di Ventura e poi di Tavecchio, non è dissimile a quanto servì dopo il 1958 e dopo il 1966. Anche oggi gli sportivi vogliono il rinnovamento, facce nuove, credibili. Insomma, vogliono voltare pagina. Quindi il successore di Tavecchio non potrà essere espressione dei medesimi meccanismi, non dovrà rappresentare la continuità ma la rottura, altrimenti tra quattro anni saremo di nuovo a parlare degli stessi problemi.

Il nuovo presidente, chiunque sia, dovrà produrre un profondo rinnovamento, strutturale, da attuarsi con progetti coraggiosi, prima ancora che ambiziosi, progetti anche rischiosi, se necessario, ma soprattutto innovativi ed evolutivi perché, a questo punto, è d’obbligo una rivoluzione.

Il disegno di Tavecchio era quello di prendere tempo. Voleva arrivare al prossimo giovedì, 23 novembre, per far eleggere Mauro Balata, un suo uomo, al comando della Lega di Serie B da lui commissariata tempo fa per poi nominare un commissario ad acta per la Lega nazionale di Serie A, anch’essa da lui messa sub judice, per poi ricontarsi, forte di quei voti, al fine di consolidare il potere.

Ma il disegno è saltato. La mancata qualificazione ai campionati del mondo è stata come una bomba devastatrice. Non è bastato a Tavecchio, e non poteva bastare, l’addossare ogni responsabilità a Ventura, del quale tra l’altro, per trarsi da ogni impaccio, ha detto che era stato scelto da Marcello Lippi, incassando subito una secca e pesante smentita. La contrarietà espressa da Malagò è stata determinante, così come quella, giunta a ruota, del ministro dello Sport, Luca Lotti, cui hanno fatto seguito, un po’ a sorpresa, quelle di Sibilia e di Abete. Il destino di Tavecchio, nel fine settimana, è apparso segnato. E lo si è capito, in modo chiaro, quando Carlo Ancellotti, contattato tramite l’ex amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, non ha neppure risposto, almeno pubblicamente, alla sbandierata offerta della panchina azzurra. Quella presa di distanza silenziosa, fredda ma inequivocabile, ha rappresentato il colpo di grazia alle residue speranze di Tavecchio.

Alla fine Tavecchio ha dovuto alzare bandiera bianca. E stamani si è dimesso, con rabbia, chiedendo però che l’intero consiglio federale lo segua. Una richiesta, questa, condivisibile. Perché è impensabile cambiare solo la testa. La tabula rasa deve essere completa, totale, senza appello per nessuno.

Le elezioni per il nuovo presidente dovrebbero svolgersi tra novanta giorni. Ma non è affatto detto che la prospettiva sia questa. Non essendoci più un presidente, venendo quindi meno la completa funzionalità della federazione, il Coni può adesso commissariare la Figc. E Malagò ha già annunciato che intende farlo, specificando che il commissariamento sarebbe utile per iniziare quelle riforme che, nel corso di una campagna elettorale affrontata con la Lega calcio di A e la Lega di Serie B senza presidenti, non potrebbero essere avviate.

Tra ieri ed oggi la posizione di Malagò è stata determinante e quasi sicuramente il numero uno del Coni la farà pesare. Non è intenzionato, od almeno non sembra, ad assumere lui, ad interim, il commissariamento della Figc, quanto semmai ad affidare il delicato ruolo a un uomo di riconosciuta integrità etica e morale e di indiscussa conoscenza del mondo calcistico, come ad esempio l’ex arbitro internazionale Pierluigi Collina, attuale presidente della commissione arbitri della Fifa, che sarebbe oggettivamente un’ottima soluzione.

Malagò è stato il principale obiettivo degli scomposti attacchi di Tavecchio, che in conferenza stampa gli ha attribuito tutta o quasi la responsabilità di quella che lui ha descritto come una sorta di cospirazione politica, ma che, vedendo bene, altro non è che il risultato di una gestione tecnica e dirigenziale a dir poco disastrosa negli esiti sportivi. Tavecchio, inoltre, si è sentito tradito da Sibilia, su cui evidentemente la pressione del capo del Coni ha fatto effetto, e ha attribuito a un nuovo asse che unirebbe Malagò a Sibilia ed Abete le ragioni della sua caduta.

In ogni caso, adesso, Tavecchio non è più il numero uno della federazione calcistica. E con lui, presto, dovranno andarsene anche i consiglieri federali. Commissariamento o non commissariamento, infatti, è doveroso gettare le basi per un cambiamento reale, effettivo, in modo da eleggere, quando sarà il momento, il nuovo presidente a partire da presupposti e relazioni nuove, completamente diverse da quelle che hanno contraddistinto il mandato di Tavecchio. Serve un presidente che non sia espressione di accordi e compromessi, ma che lavori per il bene del calcio e dello sport in generale. Serve un presidente dotato della giusta autonomia e capace di attuare un mirato cambio di passo imperniato sul ragionamento, sulla ponderazione, ma non sui compressi. E’ necessario ridurre il numero di squadre in Serie A e B, prevedere un assetto normativo e contrattuale di diversa natura per la Serie C, non isolare la Serie D e il mondo dei dilettanti, mettere dei limiti al numero dei giocatori stranieri senza contravvenire alle normative di libera circolazione all’interno dell’Unione Europea, valorizzare i giovani talenti italiani e rendere il calcio patrimonio identitario delle comunità e dei mille campanili. Ma soprattutto serviranno, attorno al presidente, facce nuove, pulite, prospettive diverse e capacità inedite, per rimettere il contenuto sportivo davanti a tutto il resto perché il calcio, non dimentichiamolo, è anche e soprattutto un evento agonistico e non solo uno spettacolo commerciale.

Se questo accadrà, se si saprà riconnettere il calcio ad antichi valori come la passione, la partecipazione, il sano coinvolgimento e la rappresentanza di un territorio, il futuro è assicurato perché l’Italia ha un patrimonio tecnico inestimabile e può tornare ai vertici del calcio mondiale. In alternativa, il futuro non ci sarà, o meglio sarà tristemente segnato e in ogni caso nel solco dell’insuccesso che Tavecchio e Ventura hanno regalato, loro malgrado, alla grande platea del football nazionale.


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