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Altro che Allegri. Il cinismo fa parte dell'identità della Juve: vincere è l'unica cosa che conta

di Ivan Cardia
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Si erano salutati, bene o male lo sanno soltanto loro, al Milan. Si ritrovarono poco tempo dopo alla Juventus. Bene. Oggi per la terza volta in carriera Andrea Pirlo deve confrontarsi con Massimiliano Allegri. Da colleghi, seppure il bresciano lo sia ancora in divenire. L’atto terzo non va però in scena per davvero, ma anche Pirlo, come Sarri, deve inevitabilmente confrontarsi con il fantasma dell’ex tecnico bianconero, o meglio con quello che di “allegriano” è rimasto nella Juve di oggi.

L’eredità di Allegri. Che sta benissimo e probabilmente sarebbe il primo a rifuggire gli -ismi, le scatole teoriche nelle quali ci divertiamo a incasellare allenatori, calciatori, professionisti, uomini. Nella Juventus che sabato sera ha battuto la Roma 2-0, senza virtuosimi ma altrettanto priva di sofferenza, in molti hanno rivisto il lascito di Allegri. Il cinismo. Il risultato prima di tutto. La cifra tecnica dell’allegrismo, che in corso d’opera si scontrò (e vinse) col sarrismo delle triangolazioni e della beffarda definizione di bel gioco. È sembrato di rivedere la Juve di Max. Del resto, è abbastanza improbabile che potesse essersene andata via con un colpo di spugna: il ciclo d’oro di Agnelli l’ha avviato Conte, ma l’ha plasmato Allegri. L’allenatore delle due finali Champions e dei cinque scudetti consecutivi: quello che più di tutti ha inciso nella costruzione dell’identità, per la verità difficoltosa, di una squadra in perenne mutazione. Non è una questione tattica, dove pure il lascito è evidente (la difesa ad assetto variabile) e a un certo punto sarebbe bene riconoscerlo, quanto soprattuto di mentalità.

Ma questa è la Juve, non Allegri. Se il livornese ha plasmato i bianconeri, altrettanto può dirsi al rovescio: si è trovato in una squadra che aveva la vittoria quale fine e ha messo la vittoria al primo posto. Gli chiedevano scudetti, mica arabeschi e ghirigori. Vincere è l’unica cosa che conta: non l’ha detto Allegri. La sua squadra era cinica, vero. Ma non lo era forse anche la Juve di Lippi? E quella di Capello? Non scomodiamo l’epopea vinci-tutto di Trapattoni. E pure la squadra di Conte aveva in sé qualcosa di famelico. Chi guarda agli ultimi dieci anni, sabato ha rivisto Allegri. Chi guarda alla storia bianconera, sabato ha rivisto semplicemente la Juve. Quella dell’Avvocato e del whatever it takes, che di questi tempi va di moda, ma ante litteram e declinato in salsa calcistica. Dei campioni sì, ma al servizio di una finalità precisa: vincere. E per il calcio champagne c’è sempre tempo. Allegri o no, è un’identità che ha radici molto più profonde.

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Sabato 4 Maggio 2024
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