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Juve: l’inversione sul mercato e il processo a Sarri. Inter: Eriksen c’è, ma non finisce qui! Milan: la lezione di Pioli e quattro giorni di affari. Kobe: un saluto doveroso a chi non c’è più

di Fabrizio Biasin
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© foto di Alessio Alaimo

Ci ha lasciato Kobe Bryant. Ieri ci siamo arrabbiati perché le nostre prime pagine a differenza di quelle straniere lo hanno messo “da parte”, come se non si trattasse di un dramma da onorare, ma di un fastidio da sistemare ("in che parte di prima pagina lo mettiamo? In alto? In basso? Alla gente interessano il mercato e le polemiche arbitrali!").
Il calcio in Italia è così importante che ha finito per rincoglionirci.
Ecco, ieri abbiamo twittato così e, va detto, fa un po’ strano ritrovarsi qui a parlare di mercato e affini. Però c’è poco da fare, del resto è un problema tutto nostro: i giornalisti hanno paura di “osare” perché i lettori sono sempre di meno e i lettori, sì, sono tristi per Kobe, ma poi vogliono sapere se Tizio cambia squadra e se gli arbitri sono cattivi o solo imbranati. In ogni caso bastava poco, una bella foto al centro, un titolo in grande e quantomeno avremmo salvato le apparenze. E invece no, niente di fatto. La comunicazione in Italia ha tanti problemi e siamo tutti responsabili: chi ci lavora, chi si ci ciba quasi esclusivamente di puttanate e non riesce a farne a meno. Oh, magari miglioreremo, ma questo è un finale retorico buttato là solo per tagliar corto e cambiare discorso.
Ultimi giorni di mercato, vivaddio, e secondo giorno di Eriksen a Milano. Ebbene sì, trattasi di gran colpo, un acquisto “raro” perché concretizzato a gennaio, perché relativo a un calciatore che in condizioni normali sarebbe costato quattro volte tanto. Conte ha il suo bel rinforzo di centrocampo e sembra non essere ancora sazio. Quello dell’Inter è stato (è) un gran mercato, francamente non pronosticabile per mole di spostamenti. I dirigenti lo hanno definito “il mercato delle opportunità” ma in fin dei conti il tecnico nerazzurro si ritrova con la rosa semi-rivoluzionata. L’ex ct parla di “sostituzioni” ed ha ragione, ma così funziona per tutti. E comunque se “sostituisci” lo fai perché credi di poter migliorare e, insomma, al di là delle strategie di comunicazione è giusto che l’allenatore sia soddisfatto per quello che è successo a gennaio fuori dal campo. Meno per quello che è successo in campo, è evidente.
L’Inter è appannata, fatica un po’, volendo si piange troppo addosso. Contro il Cagliari – parere personale – ha pagato l’assenza di Brozovic, l’unico vero insostituibile del gruppone. Senza il croato (o quando il croato è sottotono) i nerazzurri perdono intensità, possesso palla, capacità di distribuire palloni; per questo il mercato non si ferma e, con Vecino in uscita, si pensa ad ulteriori rinforzi in mezzo al campo. C’è chi parla di Kucka, qualcuno osa ancora buttare sul piatto Vidal, per non parlare di Giroud là davanti. Noi non sappiamo una mazza, però abbiamo una certezza: saranno decisive le prossime 92 ore.
E la Juve. Il protagonista è sempre Sarri, tecnico che una settimana “ha capito tutto, si intravede il sarrismo” e quella dopo “non capisce nulla, era meglio tenersi Allegri”. Anche in questo caso facciamo tutto noi a seconda della convenienza. Prendete i commenti post-Napoli: “Sarri al San Paolo ha dimostrato di non essere un vincente”. Lui che oh, l’anno passato al Chelsea ha conquistato l’Europa League, che non sarà la Champions ma neppure la Mitropa. Va così e se di “bel calcio” a Torino quest’anno non se n’è visto granché, è anche vero che di più al tecnico non si poteva chiedere. È arrivato da “marziano” in un ambiente dove storicamente (e giustamente) il “bel calcio” interessa solo se abbinato ai risultati; s’è beccato la polmonite, ha dovuto fare i conti con un mercato che ha portato diversi giocatori, quasi tutti non adatti alla sua idea di calcio. C’erano tutte le premesse perché partisse con qualche difficoltà e, invece, si è qualificato agli ottavi di Champions senza problemi e guida la classifica, pur senza brillare.
E veniamo al punto.

Il punto è che il problema della Juve non è Sarri, ma chi ce l’ha messo. Agnelli sarebbe andato avanti volentieri con Allegri (e avrebbe fatto benissimo), ha scelto di dare credito alla linea dirigenziale, ovvero a Nedved e Paratici, vogliosi di portare a Torino “la fantasia”. Per farlo, però, non hanno assecondato il loro tecnico e semmai gli hanno messo i bastoni tra le ruote: prima hanno fatto capire di voler cedere i vari Higuain, Dybala, Mandzukic, ma pure Matuidi ed Emre Can (in uscita); il tecnico se li è ritrovati in rosa e almeno nei primi 2 casi è stato bravissimo a non perderli ma, anzi, a renderli grandi protagonisti della sua squadra.
Ecco, il mercato. La dirigenza che ora fa benissimo a non prendere giocatori di complemento (i guai della difesa si sistemeranno col ritorno di Chiellini, altre pedine ingolferebbero un monte ingaggi già esagerato), la passata estate hanno commesso diversi errori. Si sono messi al “litigare” con l’Inter per Lukaku quando i nerazzurri avevano già l’accordo con il belga, hanno portato a Torino tutta una serie di giocatori che, stringi-stringi, stanno facendo bene in un ambiente dove “bene” è troppo poco. E pensiamo a Rabiot (ingaggio multimilionario, invisibile fino a un mese fa) e Ramsey (altro mega-ingaggio e troppo spesso inutilizzabile), a Danilo (alternativa dei titolari), fino a De Ligt che è certamente un enorme prospetto, ma è costato assai e guadagna uno sproposito (85 milioni di cartellino, 8 di ingaggio + bonus).
Totale: “se” la Juve ha dei problemi (in fondo è sempre primissima e dopo così tanto tempo confermarsi è tutt’altro che facile) non dipendono dal tecnico, bensì da chi ha puntato troppo sui “nomi” e poco sulla sostanza. L’inversione di tendenza è già in atto: a giugno arriverà un talento come Kulusevski - bel colpo - costato assai di cartellino ma poco di stipendio, quindi la Juve dovrà dare una sistemata al solito monte ingaggi (circa 250 milioni al lordo). Capiamoci, trattasi di bla bla, in fondo tutta questa faccenda si trasformerà in “vero problema” se la Juve non riuscirà a vincere in Italia e ad arrivare in fondo in Europa e in “non-problema” se, invece, le riuscirà il colpaccio. Agnelli (“Il futuro dirà se le scelte prese erano quelle corrette”, così parlò il giorno dell’addio ad Allegri) attende, Sarri lavora (bene, almeno per il sottoscritto).
Milan. C’è un problema serio. Alessio Alaimo di Tmw (a cui invio sempre il pezzo) questa mattina ha un volo all’alba e, quindi, mi ha chiesto se posso anticipare la consegna. Questo significa che non posso attendere le 23 per copiare notizie da Di Marzio e Pedullà e mi tocca improvvisare cose come “il Milan tiene calde le piste in uscita: Suso, Piatek e Paquetà cercano il loro incastro. Lo spagnolo è sempre vicino al Siviglia, ma l’accordo economico tra i club ancora non c’è, per gli altri due resta calda la pista Psg”. Cose a caso, insomma.
Molto più importante quello che succede in campo. Pioli ha finalmente trovato la quadra. Sì dirà “tutto merito di Ibra” e in gran parte è così, ma c’è di più. Il tecnico ha preso decisioni coraggiose, ha bocciato antichi titolari, ha accantonato le “figure di mezzo”, ha puntato su 11 titolari. Sembra facile, ma se così fosse saremmo tutti tecnici di serie A e, invece, al massimo scriviamo quattro boiate. Pioli è bravo, non si lagna, sa mettere ordine e oh, dovesse riuscire a conquistare un posto in Europa – opinione personale – meriterebbe la conferma. Sì, ok, nessuno è d’accordo, meglio Guardiola (eh, grazie al mazzo).
Altre cose? Nessuna, anzi no. Nella giornata dei rallentamenti in vetta non si può non ricordare quello che è successo sabato: una squadra ha distrutto la sua avversaria, ha impressionato per forza fisica, idee, fantasia applicata al campo. Si chiama Atalanta e se fosse un giocatore di basket ricorderebbe assai quel fenomeno che non c’è più.
Addio mercato, ci si vede settimana prossima da Sanremo (le mie canzoni predilette? Morgan e Bugo, Anastasio, Rancore e Diodato. Ma vincerà Urso. Oppure Elodie. Segnatevelo, tanto non ne prendo una dal 1983).

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