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Il Portogallo cerca un nuovo destino. Rui Costa vuole una nuova avventura per il suo Benfica, ha scelto Schmidt e i giovani per tornare grande

di Carlo Pizzigoni
Giornalista, scrittore, autore. Quattro libri, tanti viaggi. Tutti di Calcio. Su Twitter è @pizzigo. Su Twitch con @lafieradelcalcio
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Non c’è forse nulla che racconta meglio il Portogallo e i portoghesi come la loro musica, il Fado. Quella cantilena triste, quasi a mostrare un’anima in subbuglio, è tecnicamente una musica tonale in tempo pari, si canta a strofe con melodia per metà in maggiore per metà in minore, con una voce che dialoga con gli strumenti classici della tradizione lusitana. I testi parlano di un vuoto, di presenza in assenza, di desiderio di ciò che non si ha più. I portoghesi hanno colonizzato il Mondo grazie a navigatori e avventurieri che hanno creato un impero, ammarando in ogni angolo del globo, poi sul finire del Novecento la loro armata viene sconfitta e costretta alla ritirata. Il Paese è sempre più isolato, sempre più povero e vive nel rimpianto di un tempo andato. Quel senso di disfatta, porta lo spirito portoghese a uno fatalismo disilluso, al Fado, dal latino fatum, destino.

Un destino che diventa condizione e tratto identitario dello spirito nazionale, che quasi vergognandosi si chiude sempre più su stesso, e vive un lungo tratto di Novecento senza nessun rapporto con il Mondo. L’unico spiraglio, quasi l’unico contatto con il continente, motivo di orgoglio che il regime di Salazar cerca di accreditarsi ma non ci riesce è il Benfica, la squadra di Lisbona che negli anni Sessanta diventa mitologica, vincendo due volte la Coppa Campioni e regalando al Paese il giocatore più adorato della sua storia, Eusebio, lui proprio figlio di quelle colonie lusitane in Africa, terra di saccheggio costante.

Eusebio è rimasto mito vivente anche dopo il suo ritiro ed ovviamente un simbolo del Benfica. Narra la leggenda che sia toccato a lui scegliere uno dei suoi eredi, in un provino, Rui Costa, entrato nel club delle Aquile a otto anni. Ma il suo Portogallo era già diverso. La Rivoluzione dei Garofani del 1974 aveva cambiato il Paese, e quindi anche il calcio. Il principale innovatore è stato Carlos Queiroz che ha lavorato a un sistema di reclutamento diverso e uno stile di gioco particolare, e che ha condotto, dalla panchina, Rui Costa, protagonista della vittoria del Mondiale giovanile, due edizioni consecutive, nel 1989 e poi in casa, nel 1991: il rigore decisivo contro il Brasile, davanti a quasi 130mila persona, evidentemente al Da Luz, lo stadio di Eusebio, lo tirerà proprio il numero 10 poi ammirato anche in Italia con le maglie di Fiorentina e Milan.

Rui Costa non si piega al destino ma cerca di governarlo, non solo in campo, protagonista di geometrie che avrebbe inorgoglito anche i navigatori del Quattrocento ora celebrati dal “Monumento a los Descubrimientos” che c’è al fianco della Torre di Belem, a Lisbona. No, Rui sta cercando di navigare in territori nuovi anche come dirigente. Da direttore sportivo del Benfica ha portato in Portogallo diversi talenti, oggi, da presidente (eletto circa un anno fa), sta muovendo una rivoluzione.

Il Portogallo era un Paese piccolo, stretto tra le corone di Spagna e Inghilterra: per vivere doveva scegliere l’ignoto rappresentato dall’Oceano. Oggi Rui Costa è alla guida di un club che non può rivaleggiare con le big del Continente, vive con le armi delle idee e del coraggio. L’anno passato il Benfica si è arreso nei quarti di finale di Champions e ha ottenuto un terzo posto in campionato: poteva accontentarsi, Rui, in fondo lui sarebbe rimasto il Maestro, per tutti, qualche parola di rappresentanza, un sorriso ben distribuito, e invece ha messo in gioco tutta la sua credibilità, rischiando. Ha iniziato così a cercare un tecnico che fosse portatore di novità, ma nel nuovo progetto dovevano rientrarci i tanti giovani che il club stava formando e che non a caso avevano vinto la Youth League, la Champions giovanile, a Nyon, con Rui in tribuna, orgoglioso e primo tifoso. Dopo mesi di osservazioni e ricerche - vere - la scelta è caduta su Roger Schmidt, tecnico tedesco reduce da una buona stagione al PSV. Significava cambiare buona parte della rosa per adattarle a una stile nuovo. Andando sul mercato per assumere Roger Schmidt, il Benfica ha portato un'Idea, e la volontà di avere una squadra riconoscibile, che dopo le prime uscite è già diventata una garanzia. Questo voleva Rui Costa, per testimoniare la grandezza del Benfica, per ricordare che anche da piccoli si può partire per conquistare il Mondo.

Si elogia spesso la capacità degli allenatori di adattarsi alla realtà in cui si trovano, e almeno in parte è giusto così: si deve sapere dove si va; ma ciò che aggiunge valore ai club - perché crea un'identità, qualunque essa sia - è la logica opposta: i migliori sono quelli che realizzano le proprie idee in qualsiasi contesto. Dobbiamo interpretare l'arrivo di Schmidt in questa ottica. Il Benfica non vuole un allenatore che si adatti al calcio portoghese ma un allenatore che porti il suo calcio, variabile estrema delle recenti evoluzioni provenienti dal mondo germanico al Da Luz, andando controcorrente rispetto tutto ciò che il club ha fatto nelle stagioni precedenti. La mentalità offensiva del suo 4-2-3-1 è già chiara, per il modo in cui pressa a tutto il campo, chiedendo ai centrali di uscire dall'area per anticipare e accorciare la squadra in difesa, ma anche per la ricerca di un ritmo elevato e di continua partecipazione alla fase di attacco. Vertigine, aggressività, qualche rischio inevitabile ma la volontà di essere sempre protagonisti della gara, come merita di essere il Benfica, nel rispetto della sua storia.
Dentro, ci sono i giovani cresciuti in casa. Contro la Juventus, stasera potrebbe esordire in Europa, al fianco di Otamendi, il centrale difensivo Antonio Silva, classe 2003, anche lui protagonista nella vittoria della Youth League. Il centravanti Gonçalo Ramos è stato preferito a Yaremchuk, per sostituire il partente Darwin Nunez, ceduto al Liverpool per circa 100 milioni, bonus compresi:i piccoli sono sempre costretti a qualche rinuncia, si sa, ma la differenza la fanno i reinvestimenti. E quest’anno Rui Costa ha scommesso su Enzo Fernandez del River (10 milioni ma ci sono già offerte per 45) e David Neres, trasferito dallo Shakhtar. Schmidt ha subito scommesso anche su un giovane formato al Benfica ma che al Benfica era trattato quasi come una promessa sfumata, Florentino Luis, passato in questi anni al Monaco e al Getafe senza mai palesare quei segnali che aveva mostrato nel campionato europeo under 19, vinto dal Portogallo nel 2018.

La voce del Fado, quella di Amalia Rodrigues è sempre straordinaria, le giocate di Eusebio paiono sempre attuali. La tradizione non è una scatola chiusa, affare del passato. E’ necessario ridarle vita per

Il Portogallo è tornato a essere un Paese giovane, con fiducia, che guarda al futuro, anche e soprattutto nel calcio. I suoi allenatori hanno solcato tutti i mari e hanno portato idee nuove e spesso vincenti. Da Lisbona è salpata anche la nave di un dirigente che con coraggio vuole fare la storia.

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