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Fossero nati in Italia, Mbappè e Lukaku non avrebbero potuto vestire la maglia della Nazionale. Se la FIGC non combatte vere battaglie politiche, il calcio italiano merita di perdere competitività

di Raimondo De Magistris
Nato a Napoli il 10/03/88, laureato in Filosofia e Politica presso l'Università Orientale di Napoli. Lavora per Tuttomercatoweb.com dal 2008, è il vice direttore dal 2012
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Kylian Mbappè è figlio di padre camerunese e madre algerina. Romelu Lukaku è figlio di genitori congolesi, Olkay Gundogan è figlio di genitori turchi. Potrei andare avanti così per ore ma sono i primi tre esempi - tra i più eclatanti - di giocatori che in Italia non avrebbero potuto far parte della Nazionale mentre altrove sì. Mbappè è campione del Mondo con la Francia, Lukaku è il centravanti della nazionale numero uno del Ranking FIFA, Gundogan ha oltre 50 presenze con la Germania. Poi ci siamo noi, quelli del 'dobbiamo cambiare tutto' dopo ogni fallimento così da non dover cambiare nulla, anche se la multiculturalità fa parte da anni della nostra quotidianità ci giriamo dall'altra parte: mia figlia, 4 anni, è circondata nella sua scuola materna da compagni di classe figli di genitori che non sono nati in Italia. E' la nostra realtà e lo sport - se vuole davvero fare cultura, se vuole restare al passo coi tempi - dovrebbe farsi promotore di battaglie politiche, anche sconvenienti. Anche quando soffia il vento del razzismo, quello più penalizzante e pericoloso dei buu negli stadi.

Molti di quei giocatori presenti nei nostri settori giovanili che giovedì sera Gravina ha definito 'stranieri' sono in realtà ragazzi nati in Italia da genitori stranieri o arrivati in Italia in tenera età. Italiani al 100% come noi: parlano la nostra lingua, in molti casi conoscono solo il nostro paese. Eppure per ottenere il passaporto italiano - e quindi far parte del calcio italiano - devono attraversare un tunnel che spesso non ha via d'uscita perché noi - a differenza di quanto accade in Francia, in Belgio, in Germania, in Spagna, in Portogallo... - siamo quelli che allo Ius Soli preferiscono il Medioevo.
Oggi più o meno funziona così: due persone che arrivano in Italia - a volte per scelta, più spesso per salvare la loro vita, ancor più spesso per trovare una opportunità di vita dignitosa - solo dopo 10 anni di residenza legale possono chiedere la cittadinanza: dopo quella richiesta ci vogliono altri 5 anni e solo dopo, i figli, possono chiedere a loro volta passaporto. Oppure a 18 anni un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri (senza cittadinanza) può fare richiesta di cittadinanza e anche in questo caso - se tutto va liscio - ci vogliono 5 anni. Come può questo iter conciliarsi con un percorso sportivo? Ovviamente non può. Tra maggiore età e lunghissimi tempi burocratici il ragazzo nella migliore delle ipotesi è già diventato calciatore papabile per un'altra nazionale. Nella peggiore, non gli abbiamo offerto una occasione. Ora il paradosso è che molti di questi ragazzi sono nei nostri settori giovanili: si allenano in virtù dello ius soli sportivo e vengono anche chiamati ai raduni, ma poi non possono essere convocati nelle varie Under. Perché per la convocazione serve la cittadinanza che, come abbiamo visto, è un'altra storia. Ben più lunga.

La domanda che mi faccio è semplice: se il presidente della FIGC non si interessa di queste battaglie politiche, di cosa si dovrebbe interessare? Gravina in questi mesi si sta occupando solo di sostenibilità economica. Non è poco, ma tutt'altro che tutto: il numero uno della FIGC dovrebbe soprattutto dare una prospettiva al calcio italiano. La critica a un sistema di cui lui è al vertice è insensata, è come se un Presidente del Consiglio - dopo tre anni e mezzo di mandato - si lamentasse di cosa non ha fatto il Governo. In questo editoriale ho preso in esame una criticità: quella che, in teoria, dovrebbe essere la più urgente da risolvere ma che in pratica viene sistematicamente ignorata. Ce ne sarebbero tante altre: la riduzione delle squadre professionistiche, grande cavallo di battaglie delle campagne elettorali di Gravina, il cambio di format, gli stadi o anche, ad esempio, il Decreto Crescita. Perché anche qui: ci si lamenta del fatto che si acquistano sempre più giocatori dall'estero, sia per la prima squadra che per il settore giovanile. Lo si fa, però, sapendo perfettamente che comprare dall'estero in termini di tassazione costa meno e che a comprare i giocatori non sono delle onlus ma delle società di calcio che naturalmente guardano al loro tornaconto. Chi dovrebbe guardare al tornaconto generale è la Federazione, è la FIGC a dover interloquire col Governo e ottenere risultati. Non l'Inter, il Milan, il Cittadella o la Pro Vercelli.

Torno all'argomento principale e chiudo con un articolo. Una intervista di Malù Mpasinkatu che mi ha fatto notare un procuratore che da anni lavora in Italia e si batte per questi temi. L'intervista recita così: "Nascono tanti ragazzi che si sentono italiani a tutti gli effetti, molti parlano la lingua addirittura con l'influenza dialettale del luogo di nascita, ma la legge attuale li fa sentire italiani di serie "B". Spesso nello sport ci meravigliamo quando vediamo nazioni come la Francia, Inghilterra, Germania, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo avere formazioni multietniche, e che su queste tematiche non si sollevano polveroni come qui in Italia. Va bene giustificare il tutto dicendo che qui da noi l'immigrazione è un fenomeno giovane, ma è una scusante per non affrontare con un metodo deciso questo fenomeno". Piccola postilla: è datata 8 maggio 2013. Sono trascorsi nove anni e questa dichiarazione è attuale oggi come allora. Chissà quanti ragazzi abbiamo perso, magari qualcuno di loro ci avrebbe pure evitato la figuraccia del Barbera...

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