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12 maggio 1974: Lazio campione d'Italia, una squadra grande e maledetta

di Redazione TMW
Fu un’esplosione fragorosa, quella del biennio ’72-74, non annunciata da alcun segno premonitore per le solite grandi del Nord. L’invincibile armata biancoceleste fu il parto di felicissime intuizioni di Tommaso Maestrelli
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Dodici maggio 1974: una data storica per i tifosi della Lazio, la domenica della certezza matematica dello scudetto, il primo nel palmares della squadra romana. La Lazio coronava con quella trionfale stagione un’ascesa ai vertici del calcio italiano rapida e inattesa come il crollo che sarebbe arrivato di lì a poco, rompendo l’incantesimo di una squadra per un paio di stagioni apparsa invincibile.

La Società Podistica Lazio nasce il 9 gennaio del 1900: quel mattino Luigi Bigiarelli, ex sottufficiale dei bersaglieri, comincia quasi per gioco, assieme ad alcuni amici, un’avventura infinita e straordinariamente intensa.
Una storia che si intreccia fin dagli inizi con le carriere di campioni straordinari. Ecco allora la Lazio di Bernardini, mitico centravanti degli anni Venti con trascorsi da portiere e un futuro da centromediano di lusso, ma anche la Lazio del capocannoniere Silvio Piola.

Tanti grandi nomi, tante stelle da ricordare per una società che però fino a quell’ormai mitico 1974 poteva vantare ben pochi risultati degni di nota. Fra essi spiccava la Coppa Italia del 1958, conquistata sotto la guida dello stesso Fuffo Bernardini, diventato allenatore di successo, la Coppa delle Alpi del 1971, poi tre finali scudetto perse all’inizio del secolo, una coppa Europa sfuggita per un rigore mancato e numerosi piazzamenti di buon livello. Mancava insomma l’acuto, il successo pieno che permettesse di annoverare fra le grandi del calcio italiano anche l’aristocratica Lazio, fino ad allora relegata al ruolo di comprimaria di lusso, non di rado costretta a misurarsi tra i cadetti.

L’ARRIVO DI GIORGIONE
Eh sì, perché la storia dello scudetto biancoceleste non può essere scissa da quella del Giorgione nazionale, uomo-simbolo della squadra. Tipica storia da dopoguerra, quella del bomber di origine toscana. I genitori, poverissimi, emigrarono in Galles in cerca di fortuna. Solo quando riuscirono a mettere da parte il denaro necessario furono raggiunti dal resto della famiglia. Nel frattempo, il “piccolo” Giorgio aveva coltivato la sua vera e unica passione: il calcio. Una volta a Cardiff, però, l’allenatore della squadra di rugby della scuola lo volle fra i suoi. Il fisico imponente del ragazzo italiano sembrava perfetto per dare peso al pacchetto di mischia, altro che dare calci a una sfera. E anche la palla ovale non dispiacque al corpulento Giorgio. Ma il cuore, sotto sotto, batteva ancora come ai tempi grami delle partite in cortile a Carrara. E poi gli mancava il gusto del gol, così diverso da quello della meta.
Fu quindi naturale, per lui, tornare all’antico amore.

Ben presto entrò a fare parte dello Swansea, dove non mancò di dividere gli animi. Eh sì, perché Giorgione era dotato di un temperamento assai focoso, che gli procurava regolarmente multe e sanzioni da parte della società. Vedendolo più giù del solito, una volta gli si avvicinò Ivor Allchurch, una leggenda vivente del calcio gallese: «Un giorno, Giorgio, tu sarai famoso come Bobby Charlton». «Tu cerchi solo di essere gentile» rispose. «No, ne sono convinto. Tu hai la preparazione e, quello che più conta, hai la mentalità del fuoriclasse».
Se una leggenda del calcio stravedeva per lui, non altrettanto poteva dirsi del presidente dello Swansea, che decise di lasciare libero il ragazzo, pressato dalle richieste di alcune società minori italiane. Lo congedò con queste fredde parole: «Non ce la farai mai nel calcio professionistico».

E VENNE IL GIORNO DELLO SCUDETTO

L’anno seguente i ragazzi erano ormai consapevoli della propria forza, maturati nelle mani di Tommaso. La difesa a quattro si erse a baluardo del grande Pulici, col solo Oddi in marcatura, mentre Petrelli, Wilson e Martini erano liberi di sganciarsi e rilanciare l’azione d’attacco. A centrocampo correvano Nanni e l’infaticabile pistone Re Cecconi, il regista Frustalupi dettava i tempi, D’Amico inventava. In avanti, a fare da spalla a Chinaglia, l’agile ala Garlaschelli. Alla nona giornata, la Lazio guadagnò la vetta della classifica e non la mollò più fino al definitivo passaggio di testimone. L’avversario da battere fu come sempre una mai doma Juve. Solo alla penultima giornata i ragazzi di Tommaso ebbero la certezza del trionfo, abbattendo con un rigore di Chinaglia il fortino del Foggia, costretto alla retrocessione. Ottantamila persone applaudirono per quindici minuti, commosse, mentre Maestrelli veniva portato in trionfo attorno al rettangolo di gioco. Con 24 reti, Chinaglia fu capocannoniere, la Lazio aveva il primato dei punti in casa e in trasferta e quello delle vittorie, oltre alla miglior difesa. Il futuro appariva roseo, ma nubi cariche di lacrime stavano già addensandosi all’orizzonte.

GLI ANNI DEL DOLORE
Nell’estate del ’74, Wilson, Re Cecconi e Chinaglia furono convocati per i Mondiali tedeschi, ricordati più per le polemiche tra il centravanti e i dirigenti federali (col celebre gesto a Valcareggi) che per i catastrofici risultati. Nel torneo successivo, la Lazio, esclusa dalla Coppa dei Campioni per la squalifica rimediata l’anno prima per gli incidenti in occasione di Lazio-Ipswich di Coppa Uefa, non andò oltre il quarto posto finale, complice il dramma di Maestrelli: già da tempo sofferente, fu ricoverato in ospedale e gli fu diagnosticato un male incurabile.
Logico che il rendimento dei suoi ragazzi non potesse essere all’altezza delle loro possibilità. Il castello di carte sapientemente eretto dal buon Tommaso era sul punto di crollare. In più, Chinaglia, pressato dalla moglie americana, meditava di trasferire la propria carriera al di là dell’oceano, affascinato da un’avventura a stelle e strisce. Nel 1975 la Lazio si oppose alla sua cessione e anno' ai COSMOS.

Partì invece Frustalupi, frettolosamente dato per finito. Fu una stagione drammatica, per le precarie condizioni del tecnico e la mancanza di gioco. Tommaso venne sostituito da Corsini, che immediatamente entrò in contrasto con l’esuberante Giorgione, sempre a caccia di pretesti per litigare. Miracolosamente, la Lazio si salvò per differenza reti. Nel giro di due anni, la meravigliosa fuoriserie di Maestrelli era ridotta a un catorcio.
Alla fine Chinaglia, per la cui libertà si era battuto lo stesso tecnico, tornato per una illusoria parentesi al suo posto, vinse il braccio di ferro con Lenzini e se ne andò negli States. La sua partenza ebbe un chiaro significato: finiva un’epoca gloriosa. In quest’atmosfera crepuscolare, il 2 dicembre 1976 si spegneva il grande Tommaso Maestrelli, il padre dello scudetto. Poche settimane più tardi, il suo pupillo Luciano Re Cecconi lo seguì, nella tragica serata della gioielleria di Via Nitti.

E l’Italia, il Paese della miseria, dell’infanzia da fame, dopo tanti anni parve un Bengodi, al redivivo Giorgio. Stipendi da favola, un’auto sportiva, e tutto questo in Serie C! La nostalgia per il Galles e gli amici rimasti là era forte, ma a Massa aveva trovato un nuovo paradiso. Nonostante questo, il turbolento giocatore entrò in attrito con la società, insofferente alle sue intemperanze: addirittura, nel periodo di leva, Giorgione si ritrovò a dormire sul tavolaccio della prigione militare. Proprio in cella venne a conoscenza della sua cessione all’Internapoli per la bella cifra di cento milioni. Quel giorno pianse, il duro Chinaglia: gli avevano promesso la Fiorentina, altro che Internapoli, ancora Serie C. Anche sotto il Vesuvio si mise comunque in luce e finalmente, nel 1969, ecco il passaggio alla squadra della vita, la Lazio.

La vittoria furibonda e picaresca di una squadra di irregolari, la Lazio del '74, tra il divorzio, il terrorismo e la violenza criminale. La domenica a miccia corta che rovesciò il Potere. 12 maggio 1974: una banda di peones, giocatori senza pedigree e senza regole che portano la pistola nello spogliatoio e sono divisi in due clan fratricidi, sta per assaltare il cielo del calcio nella stessa domenica del referendum voluto da Marco Pannella e nella stagione che fa da preludio agli anni di piombo. Il leader è un emigrante di ritorno, un misto tra Achille e Porthos. Il capitano, un inglese napoletano di famiglia borghese con un'intelligenza aguzza. La guida è un ex partigiano con il carisma gentile che deve regolare un gruppo di pazzi. Le ultime ore prima di scendere in campo. La notte, tra sigarette, le Confessioni di Sant'Agostino e i giri a carte per schiacciare la tensione. La paura di non farcela. Quindi la partita. Lo stadio che ribolle e poi muto sul rigore decisivo. L'angoscia in dieci contro undici. Fino al fischio finale. Una vittoria tanto inattesa quanto irripetibile, uno scudetto così non c'è mai più stato.

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