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Diario da Rio - Il buon Cile, la brutta Argentina, la cattiva semifinale

di Tancredi Palmeri
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Puoi avere bisogno di un miracolo per trasformare il sogno in realtà. Era quello che serviva al Venezuela, e sul campo del Maracana c’era Dios, ma aveva scelto il suo popolo eletto. Brutto ma eletto. Messi tornava al Maracana 5 anni dopo la finale mondiale persa, ma ha fatto solo un’apparizione. Al Venezuela non è bastata la forza della speranza del suo popolo afflitto dagli eventi, la realtà è un’altra. La Vinotinto non si era mai trovata in svantaggio in questa Copa America: è successo dopo pochi minuti, gol di tacco di Lautaro, ed è praticamente stato sufficiente. Quello che è ancora più strano è che l’Argentina dopo 4 partite si ritrova in semifinale senza averne giocato bene nessuna, letteralmente qualche fiammata, qualche risveglio episodico di Messi, ieri nemmeno, trascinata invece da un Lautaro Martinez addirittura migliore in campo, che correva anche per gli altri e si dannava su ogni pallone, senza aspettare come altri che la maggiore classe lo premiasse.
La brutta Argentina si regala, ci regala però la semifinale cattiva, bella, totale, più grande della Copa America stessa. E’ più facile che dopo questa competizione ci si ricordi chi avrà vinto quella semifinale, invece di chi avrà alzato la coppa: Brasile-Argentina, in Brasile, al Mineirao, dove il Brasile ha giocato la semifinale contro la Germania. E’ l’intera storia del calcio implosa in 90 minuti, così grande che non ci può certo stare qua dentro a metà articolo, serviranno tutti i prossimi giorni.
E poi c’è il buon Cile, per distanza il miglior calcio visto nel torneo. Che ha 3 individualità imprescindibili: Vidal, Medel e Alexis Sanchez. E altri 3 scudieri necessari: Aranguiz, Pulgar e Edu Vargas. Senza uno di loro può non vincere.

Ma a prescindere da chi sia in campo, non smette mai di creare e voler creare, di alzare il ritmo, di allargare i confini della fantasia aggiungendo metri al campo di calcio a destra, sinistra, in alto, in basso. La Colombia non è la stessa cosa, ha più giocatori forti, ma la visione del suo ct, il portoghese Queiroz, è meno visionaria di quella del ct del Cile, il colombiano Reinaldo Rueda. Che batte i propri compatrioti ed è un atto d’accusa verso la federazione del proprio paese. La Colombia ha però anima e intelligenza, si adegua alla lotta e al ritmo, non sa agire come i cileni ma sa reagire. Partita senza un attimo per mettersi le mani ai fianchi e prendere un respiro, sembra una semifinale di Champions League giocata fino all’agonia.
Quasi una conseguenza che si arrivi ai rigori - senza passare dai supplementari che la Conmebol non vuole. E lì, è ancora più incredibile che vengano battuti con due stili diversi.
Pensateci bene: ogni giocatore ha il proprio stile nel tirare un rigore, ma non accade mai che due squadre abbiano due stili distinti. La Colombia li batte piazzandoli, il Cile li trasforma scaraventandoli, alti e potenti. Dritto fino alla fine, quando Arias lo piazza troppo, e Alexis lo scaraventa bene.
Sembrava impossibile che il Cile con una squadra invecchiata uniformemente, e con la pancia piena da due Copa America consecutive, potesse anche solo pensare a rivincere.
Forse c’era solo una maniera: cambiare tutto affinché niente cambiasse. Cambiasse il gioco affinché l’ambizione rimanesse intatta. Reinaldo Rueda, il ct gattopardesco.

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