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Il ricordo di Bruno Bolchi: quando anche Mazzola aveva paura di lui

di Lorenzo Di Benedetto
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Nella giornata di oggi è arrivata la notizia della scomparsa di Bruno Bolchi, ex giocatore di Inter, Torino, Hellas Verona e Atalanta, e tecnico di Bari, Lecce, Cesena e Reggina, all'età di 82 anni. Per ricordare la sua carriera e omaggiare un grande del nostro calcio, vi riproponiamo una delle sue ultime interviste, racchiusa nel libro "Le 100 emozioni. Cento personaggi raccontano la loro passione per il calcio".

Più di ottocento panchine da allenatore tra i professionisti. Bruno Bolchi ha girato l'Italia in lungo e in largo, sempre col pallone in testa. Da giocatore è stato anche capitano dell'Inter allenata da Helenio Herrera. "L'arrivo del Mago a Milano - ricorda - fu preceduto da un battage pubblicitario incredibile. La prima qualità che impressionò di lui era la carica con cui trasmetteva alla squadra il suo entusiasmo. La sua vera rivoluzione fu sul piano degli allenamenti che fino a quel momento erano basati su giri di campo, ginnastica da fermi e poco pallone. I suoi allenamenti invece erano brevi ma intensi, a base di velocità. Il 90% era lavoro con la palla fra i piedi. Portò poi i suoi slogan per dare slancio a tutto l'ambiente. Io ero giovanissimo, avevo vent'anni e a ventuno mi fece capitano della squadra. Lavorammo vari anni insieme poi le strade si separarono. Ha tracciato un solco nuovo nel modo di concepire il calcio".

Lo sa che lei è stata la prima figurina della collezione Panini che ha compiuto di recente 60 anni?
"Tutto questo mi fa tornare indietro nel tempo. All'epoca ero un ragazzino, avevo 21 anni e non mi accorsi che i fratelli Panini stessero lanciando qualcosa che avrebbe avuto un successo mondiale. E' una cosa che mi inorgoglisce. Spero di poter gioire ai 100 anni delle figurine Panini...".

Gianni Brera aveva trovato per lei il soprannome di Maciste vista la sia forza fisica. Si sentiva davvero Maciste?
"Le racconto un particolare facendo un riferimento alla mia generazione. Eravamo i ragazzi del dopoguerra e il mio fisico era un'eccezione. Già a quattordici anni e mezzo ero molto slanciato e tutti gli altri miei coetanei, anche i più alti, mi arrivavano alla spalla. Non mi sentivo Maciste ma ricordo che Mazzola, quando entrammo nello spogliatoio una delle prime volte disse: 'Di fronte a Bolchi, io così mingherlino mi sono preso paura...'"

All'Inter lei era molto legato anche a Mario Corso...
"Siamo stati per tanti anni compagni di squadra e ci frequentavamo anche fuori dal campo. Lo conobbi a una convocazione nelle nazionali giovanili azzurre, quando vincemmo il titolo europeo in Lussemburgo. Mario veniva da una squadretta in provincia di Verona, era magro come un chiodo, ma aveva già una classe straordinaria. Restammo tutti sbalorditi quando lo vedemmo giocare per la prima volta, io compreso. Poi fu acquistato dall'Inter e praticamente esordimmo insieme in nerazzurro. Diventammo titolari, nonostante fossimo giovanissimi, sia io che lui che Aristide Guarneri. Corso aveva estro ma anche un'innata fantasia".

Quale episodio legato a Mario Corso ricorda con maggiore affetto?
"Quel che tengo a precisare è che le punizioni che tutti ricordano non erano frutto di uno studio, come si diceva all'epoca. Mario tirava così da fermo già a 16 anni e mezzo, quando l'ho conosciuto io: aveva ricevuto naturalmente questo dono".

Bolchi, parliamo ora della sua carriera da allenatore. Quali sono le sensazioni più piacevoli che le sono rimaste?
"Ogni promozione ti regala tante emozioni. Voglio però sottolineare il piacere di aver aiutato tanti giovani nella loro crescita ed esplosione. Averli fatti esordire e poi vederli arrivare a vincere grandi trofei è una splendida soddisfazione. E' il caso di Seba Rossi, Brio, Ambrosini, Rizzitelli, Minotti. E poi tutta la covata del Bari e Massimo Orlando che ebbi alla Reggina. Non dimentico il giorno in cui col Bari in C in Coppa Italia eliminammo la Juve nel doppio confronto (era l'83-84). Ed era la squadra di Platini e Boniek".

Ha mai avuto la possibilità di allenare una big?
"Ci furono due-tre opportunità che potevano andare in porto. Una con la Fiorentina con Allodi direttore generale e un'altra al Torino. Ma ripeto sono contento di quel che ho fatto: riuscire ad andare avanti per così tanto tempo in questa professione e collezionare più di 800 panchine tra i professionisti, mi fa dire che qualcosa di positivo in questo ambiente sono riuscito a fare".

Tra i presidenti chi ricorda più volentieri?
"A Cesena mi sono tolto tante soddisfazioni, è la città dove sono rimasto più a lungo, ben quattro anni. Ma mi sono trovato benissimo un po' dappertutto, in primis a Bari. Quanto ai presidenti al Pisa ho avuto Anconetani con cui il rapporto è stato ottimo. Aveva un carattere particolare, magari aveva cinque minuti in cui si arrabbiava e succedeva di tutto ma poi si tranquillizzava. E' stato un gran dirigente, aveva la capacità di mantenere sempre la squadra tra la Serie A e la B. Ricordo che la settimana prima che ci lasciasse era a cena a casa mia. Era vulcanico e come dicevo prima, quando vedeva qualcosa che non gli tornava partiva in quarta ed era difficile contenerlo".

Matarrese che presidente fu al Bari?
"Si creò con lui una bellissima "chimica". La squadra era retrocessa in C. Lui mi chiamò e mi disse: 'Guardi che di calcio non so nulla, le darò in mano un gruppo di giocatori e lei mi dirà chi tenere e chi dar via. Mi deve scusare ma non so nulla'. Tutto sommato fu anche una fortuna. Con Janich costruimmo una squadra basata sui giovani del vivaio come Loseto, Cuccovillo, De Trizio e fummo protagonisti della doppia promozione".

A Bari come si trovò?
"Al sud ho lavorato tanto, la gente ti dà tanto calore e ti ripaga alla grande degli sforzi. Io ho sempre fatto il mio lavoro e sono stato rispettato da tutti".

Tornando ai calciatori che ha allenato quale è stato quello che l'ha colpita davvero di più?
"La miglior impressione me la fece Massimo Orlando, quando arrivai alla guida della Reggina. Aveva 18 anni e una tecnica raffinata. Scattava per un'ora e mezzo e quasi non ne risentiva. Quando mi dissero che era davvero forte ci credevo ma fino ad un certo punto. Poi dal vivo ne ebbi la piena conferma. Peccato poi che la sua carriera sia stata condizionata dagli infortuni".

Lei, milanese, dopo la fine della carriera da giocatore si è stabilito con la sua famiglia in Toscana. Come mai?
"Prima di diventare un tecnico a tutti gli effetti feci per qualche mese l'allenatore-giocatore alla Pro Patria. Fu un'esperienza breve dopodiché con mia moglie dovevamo decidere dove fissare la nostra residenza. In quel periodo mi chiamò Melani, presidente della Pistoiese che mi volle come tecnico degli arancioni. Arrivati in Toscana ci consigliarono di stabilirci a Montecatini che all'epoca era spettacolare. Ce ne innamorammo e siamo rimasti qui".

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Venerdì 3 Maggio 2024
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