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Il fondo Elliott deve ammettere le difficoltà e cedere al miglior offerente. Soltanto con un vero proprietario tornerà il grande Milan

di Alberto Cerruti
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L’ultima clamorosa uscita a vuoto, ovviamente in inglese, di Ivan Gazidis, secondo il quale il fondo Elliott ha salvato il Milan dalla serie D (bum!) ha provocato una battutaccia a caldo di Silvio Berlusconi (“certe frasi bisogna dirle quando ci si chiude in bagno”) e soprattutto una lucida precisazione a freddo di Adriano Galliani che ieri mattina a “Radio Anch’io” su Radio uno ha testualmente dichiarato: “E’ stata la dirigenza cinese a farsi prestare i soldi dal gruppo. Se non li avessero avuti, ci saremmo tenuti la caparra e avremmo iscritto il club al campionato e all’Europa League”. Ripristinata una inattaccabile verità storica, è ancora più chiaro che il tentativo dell’amministratore delegato rossonero di respingere le prime violente critiche alla proprietà è una classica “excusatio non petita, accusatio manifesta”, una difesa non richiesta cioè che si trasforma in un’indiretta ammissione di colpa. La clamorosa sconfitta a San Siro contro la Fiorentina con la contestazione dei tifosi, poco distanti da lui, a Gordon Singer ha infatti smascherato tutte le responsabilità della proprietà, con le scelte a cascata dei dirigenti e dello staff tecnico. Continuare a ripetere che il fondo Elliott ha salvato il Milan, aggiungendo che ci vuole tempo per rilanciarlo non basta più. A parte il fatto che, come per il lavoro di Giampaolo, qualcuno dovrebbe dire “quanto” tempo ci vuole, fissando cioè una scadenza come nei contratti invece di parlare in termini generici, il Milan non è ripartito dalla serie D come il Parma o il Bari e quindi non si possono chiedere ai tifosi tre o più anni di pazienza per tornare, non diciamo a vincere lo scudetto, che comunque dovrebbe essere un obiettivo, ma almeno al quarto posto traguardo minimo per partecipare alla Champions. Questa è già la seconda stagione con il fondo Elliott al comando, ma non si intravedono segnali di svolta. Anzi, la pessima partenza culminata con l’esonero di Giampaolo, dopo una campagna acquisti senza un vero piano di rafforzamento a livello qualitativo, fa temere che questa stagione sia peggiore della precedente. E allora cresce il sospetto che l’aspetto puramente economico prevalga su quello sportivo, perché il grande interesse per il nuovo stadio con tutto il business conseguente e la decisione di puntare soltanto sui giovani per poi rivederli possono produrre guadagni ma non vittorie.

Peccato, però, che senza vittorie il Milan non possa essere rivalutato e quindi non ci possa guadagno per il fondo Elliott che pensa più al proprio interesse che alla passione dei tifosi. Intanto, però, il tempo passa e diventa sempre più difficile far combaciare gli interessi economici con quelli sportivi, perché il calcio è un mondo a parte. Investire denaro per salvare e rivendere un’azienda in crisi funziona, mentre quando c’è di mezzo un pallone questa certezza non esiste. Senza competenze specifiche, perché il fondo Elliott non sa nulla di calcio, come Gazidis il suo primo braccio operativo non sa nulla del calcio italiano, così diverso rispetto alla Premier, il rischio è quello di perdere tempo senza ottenere il guadagno sperato. Ecco perché, come un giocatore al casinò preferisce accontentarsi di una vittoria minima quando capisce di non poter stravincere come sperava, così il fondo Elliott dovrebbe riconoscere che gli conviene ritirarsi in anticipo per limitare il guadagno se non le perdite, accogliendo le proposte del miglior offerente. In questo modo, tra l’altro, favorirebbe indirettamente il rilancio del Milan, se affidato finalmente a un proprietario non più di passaggio ma veramente interessato a ricreare una grande squadra, come fece Berlusconi nel 1986, con una struttura societaria solida composta da dirigenti italiani, o almeno con esperienza del nostro calcio. Perché i grandi giocatori saranno sempre più importanti del marketing. E senza grandi giocatori non si vince niente.

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