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Milinkovic o Frattesi? La rinascita della Juve passa dalla sua storia e da chi saprà riviverla (Giuntoli?)

di Carlo Pizzigoni
Giornalista, scrittore, autore. Quattro libri, tanti viaggi. Tutti di Calcio. Su Twitter è @pizzigo. Su Twitch con @lafieradelcalcio
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Una delle grandi risorse di una squadra che possiede una storia vera, importante, profonda è fare appello alla sua identità. Riconoscere appunto nel proprio lungo percorso elementi distintivi che hanno saputo incidere, dettare il cammino. Richiamarsi ad essi, per ritrovare entusiasmo e vitalità, la più solida base per ottenere successi. Il momento delicato che sta vivendo la Juventus e non solo per mancanza di risultati, tra polemiche, divisioni in società e tra i tifosi, sembra appunto uno di quelli che più di tutti necessita di una svolta, diretta e decisa.

Una situazione di stallo, anche se non perfettamente sovrapponibile a quella attuale, ci fu all’inizio degli Anni Settanta. La Juve sapeva di dover ritrovare smalto, energia, fiducia. Così, nel gennaio del 1970 inizia il suo lavoro in bianconero Italo Allodi su invito di Giampiero Boniperti (e qui sale a due il totalino dei geni calcistici fin qui menzionati). Il miglior giocatore d’Italia negli Anni Cinquanta, diventato amministratore delegato della squadra della sua vita (cui sarebbe bello prima che doveroso intitolare lo stadio), aveva sostituito l’onorevole Vittore Catella che con Giordanetti guidava la squadra da circa un decennio in cui era entrato in bacheca un solo scudetto.

Sulla panchina dei bianconeri dopo una parentesi senza frutto di Luis Carniglia (due coppe dei campioni al comando del Real Madrid) si era seduto l’allenatore delle giovanili Rabitti. Bisognava agire. Allodi racconta come inizia una sfida per riportare con continuità in alto i bianconeri, generando dice “risvegliando interessi ed entusiasmo”. Per allenare la scelta cade su Armando Picchi, libero della Grande Inter che aveva ancora scarsa esperienza ma il gioco lo leggeva davvero a meraviglia, e col carattere non andava sotto con nessuno. I primi mesi di lavoro furono durissimi. Racconta ancora Allodi: Posso confessare che i primi mesi sono stati peggiori che abbiamo passato Boniperti, Picchi ed io. C’era da creare un gioco, da amalgamare un ambiente. I risultati un giorno venivano e l’altro sparivano. Poi fortunatamente la squadra comincia a imporsi in campo internazionale, poi in quello nazionale. Mentre si stavano raccogliendo i primi frutti ci fu la tremenda tragedia di Picchi. Al suo posto Boniperti volle promuovere un uomo saggio come Vycpalek”. E da lì parte tutto. Nei successivi otto anni la Juve vince 5 scudetti, sfiora la Coppa dei Campioni mettendo per la prima volta in difficoltà l’Ajax di Cruyff e inizia la corsa verso quello che oggi riconosciamo come la Juventus, quando guardiamo a quel simbolo bianco nero. Nasceva la base, portata avanti dalla figura di Boniperti, che rappresentava bene il modus operandi di una società molto più di quel motto, abusato e non sempre compreso (e mutuato dallo storico coach americano Vince Lombardi), che finisce per non dire nulla, rimanere una roba vuota.

Oggi la Juventus è come se fosse in quel 1970. Il triste epilogo dell’era Andrea Agnelli sembra oggi lasciare disorientamento nel mondo Juve. La proprietà sembra distante, o comunque in tutt’altre faccende affaccendata: tocca al costituendo ramo sportivo del club prendere le redini e riconvogliare attorno alla Juve “interessi ed entusiasmo”. Che non potranno però nascere dalla solita lista di nomi che il calciomercato di oggi fornisce all’appassionato, riempiendolo di sogni e incubi estivi. C’è necessità di fare qualcosa di più, molto di più. Anche perché l'elenco alimenta famelicamente una rincorsa all’uomo della provvidenza che per fortuna non va più di moda. Da Vlahovic a Di Maria, la fabbrica dei sogni juventini ha finito presto per crollare sull’altare della mancanza di una proposta credibile e di un biennio di risultati che racconta come un terzo delle partite siano state perse. Ma i risultati sono solo lo specchio della proposta, una proposta che ha prima diviso e poi unanimemente deluso. Oggi risuonano ancora, come inevitabile delle notti d’estate, nomi importanti, sale Milinkovic-Savic, scende Frattesi, si avvicina Castagne, si allontana Boey (almeno finora, domani potrebbe ribaltarsi la situazione), ma non è lì il problema. Non è solo lì. La rinascita passa dalla replica dei lunghi confronti Boniperti-Allodi-Picchi. Nasce dal confronto delle anime della società, che devono essere anime forti, credibili. Aggiungo che questa credibilità non si deve palesare solo verso il mare aperto del mondo, ma anche nel piccolo porto dove è ancorata la nave. Se si crede poco a quello che si fa, meglio, più dignitoso lasciare la nave e accomodarsi. La Juve oggi ha bisogno soprattutto di questo: uomini di responsabilità, uomini prima ancora che tecnici che vogliono ridare “interesse ed entusiasmo” al pubblico bianconero.

Ad oggi il direttore sportivo in carica è un valido professionista come Giovanni Manna, ma è atteso a Torino Cristiano Giuntoli. Che non è, o non è solo l’uomo che ha portato a Fuorigrotta Kvara, Kim e Osimhen, ma il direttore che, dal 2015, ha gestito, quotidianamente, con una presenza continua sul campo il Napoli, permettendogli, ovviamente col sostegno della proprietà, di rimanere continuamente competitivo, probabilmente come quel club non era mai stato nella sua storia. Merita la chance anche alla Juventus, visto che pare essere il primo a volere accettare la sfida. Il calcio è dei calciatori, sono loro a emozionare il pubblicare e a decidere le partite. Ma sono le società che riescono a riconoscere, a (ri)trovare, una identità quelle che mettono quei giocatori nelle condizioni adeguate per rendere. Svuotarsi dai personalismi (anche se costa caro, a volte), rivivere la propria storia. La Juve se vuole rinascere, deve ricominciare da (quei) tre.

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