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Italia da speranze, Bellingham da sogno. A Wembley la decide il ragazzo che ha snobbato la Premier per diventare l’idolo inglese

di Carlo Pizzigoni
Giornalista, scrittore, autore. Quattro libri, tanti viaggi. Tutti di Calcio. Su Twitter è @pizzigo. Su Twitch con @lafieradelcalcio
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Da Wembley a Wembley. Dentro l’arco più celebre del mondo del calcio non si è riacceso il tricolore come dopo il miracoloso (e meritato) successo all’Europeo per l’Italia, ma i motivi per essere ottimisti, comunque, ci sono. Da Roberto Mancini a Luciano Spalletti comune denominatore rimane il coraggio di voler disputare le gare con un atteggiamento propositivo. Il primo tempo degli azzurri ieri è stato decisamente buono, e in generale la gara è stata giocata nel modo giusto, anche se qualche dinosauro riferirà che l’Italia ha subito i gol in contropiede (mentre se ci fossimo difesi a oltranza ne avremmo probabilmente subiti altrettanti, o forse più, senza vivere a sensazione di poterla vincere). La modernità del calcio li ha già messi da parte, anche se la critica italiota li mantiene svegli. E giustamente le prime parole del nostro CT vanno nella direzione adeguata: avanti così, alla ricerca di un calcio adeguato ai tempi. Pieno sostegno quindi a questo inizio di percorso che nasce nel solco del calcio proposto da Mancini. Che, beato lui, nella finale clamorosamente portata a casa dopo un Europeo super, non aveva contro questo Bellingham.

Jude, o Juuuuude, come tutto lo stadio londinese lo ha chiamato omaggiandolo in delirio mentre usciva del campo è il nuovo idolo calcistico di un Paese che calcisticamente ha sempre evitato. Ragazzo prodigio, classe 2003 (non ci sono errori di battitura), cresciuto nel Birmingham City, fatto esordire giovanissimo da mister Pep Clotet (che avremmo poi visto a Brescia e a Ferrara), ha rifiutato le sirene della Premier per maturare nel Borussia Dortmund. Sintomo di vera intelligenza, Jude ha costruito la sua carriera nell’ottica degli obiettivi da raggiungere step by step, e la Bundesliga in giallonero era la strada giusta. Quindi, ben consigliato (quanto è importante avere un professionista vero al proprio fianco, i grandi fenomeni sbagliano raramente l’agente, per tutti gli altri ci sono giusto dei discreti professionisti, patetici fin nel modo di vestirsi), Bellingham ha fatto i passi che doveva fare, ha trascinato quasi al titolo la sua squadra (scudetto sfumato solo nell’ultima gara contro la corazzata Bayern) e poi ha ridetto di no alla Premier, lasciando a bocca asciutta club come Manchester United o Liverpool, pronte a tutto, a livello economico, per farlo tornare oltremanica. Però sopra il Real Madrid non c’è nulla, e questo era il momento per salire nell’empireo e vestirsi di bianco. Aggiungendoci un carico da undici: la maglia numero 5, appartenuta a uno dei più grandi geni che i prati di calcio abbiano mai ospitato: Zinedine Zidane.

Riuscirà, dicevano e scrivevano alcuni geni, a non sentire il peso della camiseta blanca? In un mese è diventato l’idolo assoluto del Santiago Bernabeu, nel Real che Carlo Ancelotti ha disegnato attorno alla sua figura di incursore. Per sostituire Benzema infatti il Madrid non ha preso nessun nove, è rimasto coi suoi giovani brasiliani, Vini e Rodrygo e ha aggiunto l’inglese cresciuto a Dortmund. Oltre ogni più rosea aspettativa il suo inizio in Liga, con gol decisivi e una leadership che non dovrebbe essere prevista per chi porta quella data nel passaporto. Prestazioni presto replicate anche con la maglia dell’Inghilterra: qui c’è un 9, un fenomenale 9, Kane: appartenendo lui pure al partito dei “gioco per la gente che conosce il calcio” (copyright Benzema), il neo attaccante del Bayern (un altro che ha detto addio alla Premier) sa sfilarsi col tempo giusto, muovere la difesa che nel contempo viene infilata da Jude. Così è accaduto nei primi due gol contro gli azzurri ieri sera: un quattro ruote motrici con l’eleganza di una spider ti arriva dentro per imporre la legge del più forte. E oggi Jude è il più forte, almeno in questo fondamentale.

Gareth Southgate, il CT inglese che, risultati alla mano, meglio ha lavorato nella storia (con l’eccezione di sir Alf Ramsey), vedendolo giocare al fianco dei tanti ottimi giocatori che il nuovo corso inglese ha formato, pensa forse per davvero che il calcio è tornato a casa. Football coming home, e stavolta per davvero. Ci pensa Jude, il ragazzo inglesi cresciuto diventato grande lontano dagli inglesi. Una volta, fieri del loro isolazionismo, qualche mugugno sarebbe nato attorno a questa scelta poco british. Oggi l’Inghilterra, almeno quella calcistica, ha abbandonato il provincialismo che noi conosciamo bene.

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