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TMW RADIO - F. Lopez: "Io, giramondo da 15 anni: Arabia il top, Vietnam peggior esperienza"

di Dimitri Conti
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Archivio Stadio Aperto 2020-2021
TMW Radio
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Fabio Lopez ai microfoni di Francesco Benvenuti
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L'allenatore italiano Fabio Lopez, vero e proprio giramondo della panchina, è intervenuto a Stadio Aperto, trasmissione di TMW Radio condotta da Francesco Benvenuti e Niccolò Ceccarini. L'intervista inizia dalla sua prima valigia per l'estero, la Lituania: “Era il 2007, e chi se lo ricorda... (ridacchia, ndr) Ormai sono da 15 anni in giro per il mondo, partendo proprio dalla Lituania”.

C'è un elemento comune in questi quindici anni?
“La passione e la voglia di far diventare i miei sogni, quelli che mi vedevano allenatore professionista, realtà. Da lì è nata la motivazione, questo è l'elemento comune e anche il messaggio che posso dare agli altri: dobbiamo darci delle motivazioni, senza non possiamo andare avanti”.

Lei è stato in Bangladesh. Com'è andata lì?
“Si parte dal presupposto che la Nazionale, di qualsiasi paese sia, è sempre la Nazionale. I compiti e l'immagine del ct sono gli stessi, è un incarico importante, rappresenti la nazione. Parliamo del paese più povero del mondo, avevo 42 anni e partecipare alle Qualificazioni Mondiali penso sia un'esperienza unica, al di là di chi alleni. Ricordo fantastico”.

Ha mai pensato di tornare in Italia?
“Quando fai delle scelte e intraprendi certe strade automaticamente vieni escluso da alcuni stereotipi che abbiamo nella vita, prima che nel calcio. Sarebbe bello tornare in Italia, ma andrebbe considerato dove, in che categoria. Io ho avuto solo esperienze in leghe professionistiche: o trovo presupposti per avere e ricevere meriti per quanto fatto in 15 anni, o non vado. Preferirei a quel punto proseguire nella strada estera, nei paesi arabi il mio nome d'altronde è importante”.

L'ultima esperienza in Vietnam come la giudica?
“L'onesta è parte di me, e dico che è stata la peggiore mai avuta. C'è un problema quando vai a lavorare in alcuni club asiatici, manca la cultura e l'allenatore viene visto più come un lavoratore più che una figura di gestione. Sono nati scontri immediati, e meglio lasciar perdere, perché in quei casi l'allenatore non può vincere”.

Come si è adattato a realtà come Arabia Saudita, Oman, Malesia e Indonesia?
“Le potenzialità le hanno, anche il Vietnam stesso è indipendente su tutto. Però probabilmente gli manca la capacità e l'umiltà di accettare che qualcuno possa saperne più di loro. Ho sempre detto che non avrei mai potuto aprire un ristorante vietnamita e metterci gli spaghetti invece dei noodle, è far venire gli stranieri ma non dargli margini. In Indonesia sono stato due volte, e lì è totalmente un altro calcio: strutture, un ambiente che pian piano comincia ad essere più preparato e sta crescendo. Nei paesi arabi, invece, hanno il vizio che se non vinci due-tre partite, cambiano l'allenatore. Noi ci lamentiamo dell'Italia, ma lì è cinquanta volte peggio... C'è la doppia pressione, visto che sei all'estero e sei italiano. Sedici squadre di campionato cambiano due allenatori per uno, a volte anche tre ogni volta. Normale farsi esonerare, il problema è quando ti scontri con persone ignoranti sull'oggetto: là è un muro, e perdi”.

C'è stato un aspetto più difficile degli altri?
“La parte psicologica arriva da una base culturale differente dalla nostra, e quando due culture si scontrano c'è una certa emozione nell'esprimersi, soprattutto da parte di noi italiani. Va studiata la comunicazione, la capisci con le esperienze negli anni. Già il tono con cui sto parlando, loro fraintendono e credono tu sia arrabbiato. La tattica, poi, come la facciamo in Europa e la esasperiamo in Italia siamo unici: volevo fare molte cose in campo, ma dopo aver fatto A e B si arrivava a C e dovevamo tornare indietro, ma non c'era tempo. La competenza è differente”.

L'esperienza all'Al-Ahli è stata una mosca bianca per quanto riguarda quanto detto?
“Quando sono arrivato lì è perché mi ha chiamato il principe in persona. Io non volevo accettare una giovanile, non era il massimo. In prima squadra c'era Christian Gross, svizzero, e i miei erano a metà classifica: vincemmo nove partite di fila senza subire gol in sei gare. Al-Ahli e Al-Hilal sono due top club in Arabia, io quando sono arrivato il ds mi ha detto 'Fai come ti pare'. E infatti , con l'allenatore che ha un minimo di competenza e libertà di lavorare, ecco i risultati”.

C'è qualche nuova esperienza che vorrebbe intraprendere?
“A me piacerebbe la Corea, il Giappone o la Cina. Oppure tornare ancora in Arabia Saudita, i paesi arabi sono realtà molto belle da conoscere. Non ci sono università che possono darti una cultura del genere”.

Come la vede la realtà della Serie A italiana?
“Io sono cresciuto studiando il calcio italiano e credo sia il migliore come movimento. A volte ci esasperiamo su determinati concetti, ma rientra anche nelle opinioni dell'allenatore come singolo. Sono felice, da italiano, per la Nazionale: è motivo d'orgoglio, Mancini la sta rifacendo, e sto dicendo che se Dio vuole nei prossimi anni potremo anche pensare di stappare bottiglie. Gli allenatori italiani sono i migliori e anche i più vincenti, punto”.

Nel suo percorso c'è qualcuno che considera come maestro?
“Non può esistere un solo personaggio che ti ispira, in qualunque campo. Ce ne sono tanti: Capello, Conte, Allegri, Spalletti... Ma ne abbiamo talmente tanti di allenatori forti, rispetto al resto del mondo... Ho studiato anche Guardiola e Mourinho, soprattutto sulla comunicazione e sulla gestione di spogliatoio e media”.

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