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#iorestoacasa - Le storie della buonanotte: La disperata corsa di Mwepu Ilunga per salvare lo Zaire

di Ivan Cardia
#iorestoacasa - Tuttomercatoweb.com propone ai suoi lettori delle storie di calcio per tenerci compagnia in queste giornate tra le mura domestiche
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Il Brasile vince 3-0 sullo Zaire. A cinque minuti dal triplice fischio, l’arbitro decreta un calcio di punizione per i verdeoro. Sul pallone va Rivelino, star della Seleçao ed eccelso battitore dalla distanza. Prende la rincorsa, ma non riesce a calciare. Poco prima che parta, un calciatore dello Zaire si stacca dalla barriera, corre verso il pallone e lo calcia via, il più lontano possibile. I brasiliani non sanno bene che fare, il direttore tira fuori il cartellino giallo, gli spettatori tedeschi ridacchiano di quel ragazzo. Forse non sa bene le regole del calcio. La partita finisce così, Rivelino non capitalizza la punizione e il Brasile vince “solo” 3-0. Quel tanto che basta per salvare la vita dei propri avversari. Perché quel ragazzo si chiama Joseph Mwepu Ilunga, conosce benissimo le regole del calcio, ha appena corso per salvarsi. E questa è la sua storia.

Drogba, Eto’o, N’Kono, Weah. Beniamini di tanti tifosi. Oggi ci sembra una cosa normale. Dalla Costa d’Avorio, dal Senegal, dal Camerun, arrivano calciatori che diventano star a livello planetario. Campioni e africani, anzi di più: campioni arrivati dall’Africa subsahariana. Quella che un tempo si chiamava Africa nera, un termine che oggi non è più politicamente corretto. Quella che oggi, essendo ovviamente un territorio immenso, è la parte più rilevante a livello calcistico dell’intero continente.

Dal 2002 al 2014 il Nord Africa ha portato al massimo una nazionale ai mondiali. Il rapporto si è capovolto a Russia 2018, ma è un dato di fatto che negli ultimi decenni l’Africa subsahariana abbia assunto una posizione centrale nello scacchiere del calcio a livello planetario: i nomi, delle star e delle nazionali, sono quelli che avete letto poco sopra. Quattro o cinque squadre sono arrivate sempre e comunque da un’area che conta 27 dei 28 Paesi più poveri al mondo, e che pure è riuscita a spaventare le ricche nazionali europee. Ma non è sempre stato così.

Fino al 1974 l’Africa nera non è mai arrivata ai mondiali. Mai, in nove edizioni della rassegna iridata. Alla CAF, la confederazione africana, è del resto riservato solo un posto e soltanto dal 1970: fino a quell’anno, le nazionali del continente nero si sono dovute giocare le proprie chance contro formazioni europee o asiatiche, perdendo sempre. Nel ’70 è il turno del Marocco, che nell’edizione successiva cede il passo: tocca allo Zaire.

Oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo. Ha per capitale Kinshasa, che prima si chiamava Léopoldville. È considerato uno dei Paesi più poveri al mondo, se non il più povero in assoluto. Come la sua città più grande, che per la cronaca è la terza metropoli d’Africa e la prima città di lingua francese del pianeta, ha cambiato tanti nomi, segno di una storia travagliata: Congo Belga, Zaire. RDC, appunto. Non possiamo ripercorrere qui tutti i suoi drammi, le sue vicende politiche, ma ci serve un quadro d’insieme.

Nel 1974, lo Zaire è una dittatura. Lo è formalmente dal 1967, quando il maggiore generale Joseph-Désiré Mobutu è arrivato al potere dopo un colpo di stato, meno cruento rispetto agli avvenimenti di sette anni prima. Nel 1960, infatti, Belgio e Stati Uniti hanno sostenuto lo stesso Mobutu nell’assassinio di Patrice Lumumba, primo ministro eletto democraticamente. Il militare diventa l’uomo forte del regime, nel ’67 appunto subentra al presidente Kasa-Vubu. Cambia il suo nome in Mobutu Sese Seko, cambia quello del Paese in Zaire. Ha il potere assoluto in quella che viene definita una cleptocrazia, perché la corruzione diventa la normalità, la via per il potere di organizzare la vita dei propri cittadini. La dittatura regge fino agli anni ’90, finisce ufficialmente nel 1997. Come tutti i regimi, punta sullo sport, sul calcio. E nel ’74 porta la nazionale al mondiale.

Si chiamano Les Léopards. I leopardi. In contemporanea con l’arrivo della dittatura, vivono una specie di ciclo d’oro: nel ’68 e nel ’74 vincono la Coppa d’Africa. Mobutu li sprona, se trionfano li coccola addirittura: dopo la vittoria con lo Zambia in finale, li invita a palazzo, regala a tutti i calciatori un premio in denaro. Elargizioni e prestigio: il marchio di fabbrica di ogni dittatura. A maggior ragione se quei ragazzi sono stati in grado di dimostrare al mondo che lo Zaire è forte, ricco, prospero.

Un posto per ventiquattro nazionali. È questo il peso dell’Africa calcistica negli anni Settanta. Lo Zaire è inserito nel gruppo B delle qualificazioni: lo stravince, passeggiando su Togo, Camerun e Ghana. Accede al raggruppamento finale, e anche qui non c’è storia: allenata dal ct jugoslavo Blagoje Vidinic, i ragazzi dello Zaire strapazzano il Marocco (portato dallo stesso Vidinic ai Mondiali del 1970) e lo Zambia, già superato in Coppa d’Africa. È Mondiale, è apoteosi. È tragedia.

Mobutu promette ricchi premi. Vuole un calcio spumeggiante, vuole sorprendere il mondo. Si rende conto del fisiologico ritardo dei suoi giocatori rispetto alle superstar planetarie impegnate in Germania: ci sono Muller, Cruijff, Neeskens, il già citato Rivelino, Mazzola, Capello. Sta provando a colmare il gap, a modo suo: negli anni ha richiamato i migliori calciatori zairesi dal campionato belga, ora giocano quasi tutti in patria, soprattutto nel Vita Club o nel Mazembe di Mwepu. Il dittatore vuole che facciano bella figura. Non va così.

L’esordio è una sconfitta. Lo Zaire perde 2-0 contro la Scozia. Poteva andare peggio. Non per Mobutu, infastidito dall’atteggiamento dei tuoi, ritenuti troppo spregiudicati. I premi finiscono nel dimenticatoio, la minaccia è quella di non pagare gli stipendi. La squadra non ci sta, si ribella, infine va in campo. Contro la Jugoslavia è un disastro totale: sul 3-0 il ct è costretto, per ordine del dittatore, a cambiare il portiere. Finisce 9-0. Mobutu non ne può più: vola in Germania con il suo seguito. Incontra la nazionale. Cosa gli dica, non lo abbiamo saputo fino a pochi anni fa.

La terza gara è contro il Brasile. Lo Zaire non ha più possibilità di passare il turno, ovviamente. Ai verdeoro “basta” vincere 3-0. Un risultato che il regime giudica accettabile, contro la formazione campione del mondo in carica. Un risultato che tiene fino a quella minacciosa punizione arrivata all’85esimo minuto. Fino alla corsa pazza di Mwepu Ilunga.

È stato deriso per anni. Ma prima dobbiamo raccontare chi è il nostro protagonista. Classe 1949, cresciuto nel centro sportivo Don Bosco di Lubumbashi, vive la sua intera carriera con la maglia del Mazembe, che nel 1967 e nel 1968 vince la Coppa dei Campioni d’Africa. Fa il difensore, per la precisione il terzino destro. E infatti al Mondiale indossa la casacca numero 2. Per quel gesto, è stato preso in giro per decine di anni. Qui potete trovare il video YouTube, per capire bene di cosa si tratta. Ma fino all’altro ieri, fino a poco tempo fa, tutti hanno sempre pensato che quel ragazzo africano, semplicemente, non avesse idea di come si giocasse a calcio.

Lo sapeva benissimo. E con quel rinvio disperato forse ha salvato sé stesso, i suoi compagni, le loro famiglie. Soltanto nel 2002 ha svelato l’arcano: dopo il pesante 9-0 subito dalla Jugoslavia, l’abbiamo già detto, Mobutu è arrivato in Germania, sede della rassegna iridata. Ha chiamato a raccolta la squadra, ma questa volta non ha promesso riduzioni degli stipendi, non ha negato premi. “Ha mandato le guardie a minacciarci - ha raccontato Mwepu Ilunga alla BBC nel 2002 - se avessimo perso 4-0 col Brasile nessuno di noi sarebbe tornato vivo a casa”. Stessa sorte per le rispettive famiglie. Ecco spiegato perché, dopo quel gesto, Mwepu Ilunga è diventato uno dei simboli nella faticosa lotta per la libertà del popolo congolese. Le regole le sapeva benissimo. Semplicemente, erano tutti gli altri a non conoscere quelle della dittatura.

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Giovedì 18 Aprile 2024
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