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Invasione di campo a Parigi: quando la partita parla della guerra

di Ivan Cardia
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© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport

Un celebre aforisma di Winston Churchill recita così: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e le guerre come se fossero partite di calcio”. Stiamo scoprendo, in questi giorni di calcio e politica, che ne sanno qualcosa anche i turchi. L’eco del conflitto in Rojava finisce nel mondo del pallone, lo investe e il confine tra ciò che appartiene a un campo, il calcio, e ciò che appartiene a un altro, la politica, diventa labile. A volte con conseguenze paradossali: ci si aspetta una presa di posizione dall’UEFA, mentre tutte le principali istituzioni europee guardano, formalmente sdegnate ma sostanzialmente silenti, l’atto di guerra di un regime contro una minoranza che chiede solo un posto nel mondo, e per giunta l’aveva strappato allo Stato islamico.

Parigi diventa Istanbul. È la fotografia più nitida di Francia-Turchia, 1-1 allo Stade de France ieri sera. Ma sembrava che gli ospiti fossero i padroni di casa. La Marsigliese non è stata fischiata, e ci mancherebbe altro. Tutto il resto sì: ogni singola azione della Francia, per essere precisi. Merito dei 30mila turchi presenti allo stadio, e di una capitale talmente multiculturale da scoprirsi anche straniera alle volte.Il saluto militare c’è ancora. Nonostante i tentativi di nasconderlo come la polvere sotto il tappeto. Due volte: dopo il gol e a fine partita. In entrambi i casi la tv ha provato a far finta che non ci fosse, ha evitato di soffermarsi. Un po’ come accade con le invasioni di campo, soltanto che questa volta è la guerra a fare invasione nel campo del calcio. E fare finta che non sia così è difficile.

Felice è chi si chiama turco. È la frase di Merih Demiral, giovane capopopolo, che richiama una delle più celebri citazioni di Mustafa Kemal Ataturk, il padre dei turchi, l’uomo carismatico che ha creato una repubblica pronta a cercarsi sempre un uomo di riferimento, da novant’anni e passa a questa parte. Non è l’unica che sembra uscita direttamente dal 1933, da anni e scenari che a noi sembrano lontani, e invece scopriamo così vicini, anche geograficamente. Il portiere (migliore in campo) punta ad alzare il morale dei soldati, Burak Yilmaz ammette esplicitamente che non è solo calcio, Calhanoglu prova a dire che la politica è una cosa diversa ma non gli riesce fino in fondo, il ct ringrazia Allah come prima cosa in conferenza stampa: in Italia suonano come dichiarazioni fuori dal tempo, in un Paese che ha scelto di vivere una guerra, interna ed esterna, infuocano gli animi dei tifosi. Che infatti esaltano i propri beniamini su Twitter. Lo sport, il calcio, come arma di coesione nazionale: niente di nuovo sotto il sole, è la storia di ogni dittatura. Riesce benissimo, perché non c’è miglior spot di una Turchia che in campo è bella e battagliera, mette in difficoltà i campioni del mondo. Forte come le sue truppe, direbbe (dirà) la propaganda di Erdogan. Chiedere dissenso a questi ragazzi, che hanno 20 o 30 anni, di mestiere fanno i calciatori, spesso vivono in Turchia o vi vedono vivere da lontano molti parenti, è una pretesa che suona stonata, in fin dei conti. Perché non dovrebbero fare il saluto militare, se nessuno glielo vieta? Ci possono credere o meno: non è a loro, tranne fulgide eccezioni, che si chiede un passo contro la guerra.

Rimane, infatti, una sola domanda. Le normative FIFA e UEFA sono, almeno sulla carta, estremamente rigide nei confronti di comportamenti con richiami politici o religiosi compiuti sul terreno di gioco. La Turchia di Parigi è un florilegio di saluti militari, richiami ad Allah e al morale dei soldati. Fino a quando potranno far finta di niente?

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