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Palmieri: "Con i giovani passiamo dalle parole ai fatti"

di La Giovane Italia
La Giovane Italia vi porta alla scoperta dei nuovi talenti del calcio italiano, raccontandovi ogni giorno, alle 8:45, le storie dei giovani di casa nostra e dei club che scommettono su di loro
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Non ha peli sulla lingua Francesco Palmieri: in passato giocatore sanguigno, sempre pronto a dare l’anima in campo, oggi responsabile del settore giovanile preparato e sempre vicino ai giovani giocatori della sua società. Da ormai sei anni tira le fila del vivaio del Sassuolo e tantissimi i ragazzi, sotto la sua gestione, sono arrivati a vestire la maglia della prima squadra. “Per credere nei giovani bisogna farlo sul serio” dice quando intervistato per LGI “In tanti dicono di puntare sui talenti del vivaio, ma in pochi riescono a passare dalle parole ai fatti. Per questo credo che il lavoro che stiamo facendo al Sassuolo sia inestimabile”.

Direttore, qual è il suo ideale di settore giovanile?
“L’ho capito durante un incontro a Coverciano in cui abbiamo dialogato con i responsabili del settore giovanile dell’Athletic Bilbao. Oltre alla loro capacità e volontà di investire a tempo pieno sui giovani del territorio, quindi baschi, ogni anno i biancorossi portano almeno un giocatore in prima squadra, perché hanno la volontà e la forza di portare i loro ragazzi sui palcoscenici più importanti. Si tratta di un sistema molto difficile da replicare, perché devi essere sostenuto a tutti i livelli dalla tua società. Ci sono molte squadre che acquistano direttamente i giocatori, anche giovani, solo per provare a vincere titoli. Per credere nei ragazzi bisogna farli crescere per davvero, fargli fare un percorso. Altrimenti restano solo parole”.

Da questo punto di vista però sei fortunato, perché a Sassuolo investite tanto sui giovani.
“Certo, sono fortunato perché lavoro in una società con una proprietà forte e con persone che credono nei progetti a lungo termine. Non siamo tanti ma siamo efficienti, abbiamo ottimi collaboratori e ci divertiamo, rispettando però i nostri ruoli. Non so se questo sia fattibile ad alti livelli, ma voglio pensare di sì. Sono fortunato a lavorare con i giovani e farlo a Sassuolo: non potessi farlo in questo modo non lo farei”.

Sotto questo aspetto la soddisfazione è tanta, visto che ogni anno il Sassuolo riesce a portare ragazzi in prima squadra.
“Dobbiamo tutti essere soddisfatti, visto il nostro contesto stiamo facendo un grande lavoro. Siamo un paese piccolo e la concorrenza nel territorio è forte: Parma, Modena, Reggiana, Bologna e Spal sono tutte nella nostra stessa regione, bisogna farsi largo. Tuttavia, abbiamo alzato il tasso qualitativo del settore giovanile, anche nei collaboratori. Abbiamo tredici squadre ora, mentre fino a pochi anni fa ce n’erano solo 7-8. Tantissimi dei nostri ragazzi sono diventati professionisti: sono orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto tutti insieme qui. Il nostro amministratore ci fa sentire l’apprezzamento ed è importante sapere che il nostro operato piace”.

Avere un allenatore come De Zerbi, poi, aiuta a lanciare i giovani.
“In generale gli allenatori sono importantissimi: sono loro ad avere la responsabilità di farli giocare. I ragazzi non devono essere presi per fare i paletti in allenamento, perché altrimenti non si allenano bene e non servono nemmeno ai grandi. Se invece metti in luce le loro qualità, riesci a toglierti soddisfazioni. Roberto è bravo perché li fa esordire e non sono solo comparse nella nostra prima squadra. Servirebbe più attenzione in generale nelle Primavere in Italia: delle volte si portano i ragazzi tra i grandi per fare numero e in questo modo non porti mai a termine il lavoro”.

Qual è la cosa più importante, secondo te, per crescere un giocatore?
“Il punto fondamentale è fargli credere nelle loro qualità: non ci sono mai giocatori scarsi, alcuni sono finiti nei dilettanti all’inizio ma più tardi sono arrivati anche in Serie B e in Serie A. Ognuno ha le sue qualità ma soprattutto ognuno ha i suoi tempi per riuscire ad arrivare all'obiettivo. Servono passione e amore nel guidarli, altrimenti potrebbero sentirsi penalizzati. Io questo l’ho vissuto in prima persona: mi dissero che non ero pronto per il calcio dei grandi e venni mandato, con Angelo Carbone, a giocare tra i dilettanti. In seguito però, siamo stati io e lui a fare la carriera migliore tra i ragazzi di quel vivaio, mentre molti nostri coetanei non hanno nemmeno continuato col calcio. La mia esperienza personale è stata fondamentale: quando vedo qualcuno che sentenzia sui giovani mi arrabbio, perché noi siamo qui a lavorare con loro tutti i giorni. Il mondo dei ragazzi non è una passeggiata: bisogna esserci dentro 24 ore per sette giorni su sette per capire chi farà il calciatore e comunque prima dei diciassette anni è veramente difficile capirlo”.

Quindi fate tantissimo lavoro psicologico.
“Certamente, perché non bisogna fargli perdere l’amore per il calcio. Si usa il bastone e la carota: non puoi essere sempre buono o sempre cattivo, devi fargli capire che il mondo dei grandi è tutto diverso, fargli capire che possono fare i calciatori. Devi farli crescere come uomini: non tutti saranno professionisti, quindi alla fine dovranno fare qualcos’altro nella vita. Se avremo lavorato bene, i nostri ragazzi avranno soddisfazione anche senza giocare a calcio. Dobbiamo essere bravi e mostrare affetto per i nostri ragazzi”.

Quanto difficile è lavorare con la pandemia in corso?
“Tantissimo. Noi abbiamo fermato i ragazzi dai quattordici anni in su, venendo criticati ma preservando la loro salute. I più esposti vanno protetti. Il problema per i giovani è il non avere l’obiettivo della gara, ma almeno riusciamo a fare allenamenti. Non è semplice gestire la quotidianità purtroppo, ma stiamo facendo del nostro meglio, prestando la massima attenzione e continuando a lottare, nella speranza che si torni alla normalità in fretta”.

Hai dedicato tutta la vita al calcio, c’è qualcosa che ti manca?
“Vorrei avere la possibilità di stare di più con i miei figli, perché questo lavoro ti porta via tantissimo tempo prezioso. A livello di tempo conviene lavorare con le prime squadre, perché i giovani hanno bisogno di più tempo e hai meno visibilità, sui giornali non ci finisci. Mi piace quello che faccio, ma penso che non dovremmo essere così trascurati dai grandi e dall’informazione. La cosa importante di cui mi sono reso conto però è che ho bisogno di dedicare tempo ai miei figli: in tanti anni questo è quello che mi lascia come monito il mio lavoro. Fare il responsabile del settore giovanile è stancante: spesso scherzavo con Angelozzi e Rossi, dicendogli che a fare una settimana come la faccio io non ne avrebbero dato fuori. Questa professione rischia di usurarti: devi avere grande passione e grande amore, perché altrimenti motivi per incazzarsi ci sono sempre”.

Pensi mai di smettere?
“No, di smettere mai. Se un giorno mi capitasse l’occasione importante la prenderei in considerazione, mi sento anche pronto per farla. Ebbi anche dei contatti per tornare a Parma per fare il direttore della prima squadra, ma non se ne fece nulla. Se capitasse una chance di livello importante comunque ci penserei”.

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