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Juve: il segreto di una macchina perfetta (e una guida sul Monaco). Inter: terremoto in panchina, occhio ai nomi (e alle priorità). Milan: il pessimismo sui cinesi, la mossa sul mercato e 2 appunti a Montella. Napoli: non scherziamo su Sarri

di Fabrizio Biasin
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© foto di Alessio Alaimo

Come ogni anno dal lontano 2006 è iniziato il drammatico torneo di calcetto dedicato ai giornalisti: si chiama “Press League”, lo organizza un tizio di nome Luca Mastrorocco che poi è il papà di “Zona Gol” (questa citazione dovrebbe valere almeno due arbitraggi “comodi”: Luca, ci conto).

Ebbene: io vi consiglio di venire a vederci giocare (tutti i sabati mattina, zona Famagosta a Milano). E sapete perché? Perché siamo fortissimi? Perché siamo un esempio per le generazioni presenti e future? Giammai: perché facciamo mediamente cagare e si ride molto.

Cioè, noi che pontifichiamo su terzini e attaccanti, che facciamo "le pagelle" e la morale a questo e quel tecnico, che parliamo di fair-play e “pulizia” nel calcio, in realtà, siamo le prime bestie.

Sabato si è svolta la prima giornata e, come sempre, abbiamo dato sfogo ai nostri più barbari istinti: espulsioni per falli belluini, proteste, menischi rotti, arbitri mandati affanculo, mezze minacce a colleghi tipo “oh, figlio di Brera, ci vediamo fuori”, tentativi di corruzione e “accomodamenti” con l’organizzatore (vedi sopra), furti bestiali di Gatorade, annunci urlati ai 4 venti "per provocare" del genere “facciamo il sacchetto per i portafogli che di questi non mi fido”, spogliatoi ridotti male, altri vaffanculi, richieste di recupero del tipo “oh arbitro del menga, hai il cronometro nel culo?”, scarsa conoscenza delle regole (arbitro: “La rimessa si batte con i piedi ben fuori dal campo, hai capito?”. Giornalista: “Sì”. Arbitro: “Fìììììììììììì! Cambio rimessa!”. Giornalista: “Cosa fischi arbitro infame!”. Arbitro: “Avevi i piedi dentro al campo!”. Giornalista: “Che regola cretina. E pure l’arbitro non è da meno”. Arbitro: “Ti ammonisco”. Giornalista: “Uh, che paura”. E lui ti ammonisce).

Ecco, tutte queste cose non so se sono capitate anche ai miei colleghi, ma a me sì. Vi aspetto a Famagosta.

QUI INTER

È uscito il comunicato dell’Inter: sono tutti in castigo. Per carità, le torture cinesi erano altra cosa, ma è anche vero che si attendeva un segnale della società e il segnale è arrivato. Ritiro punitivo fino alla partita contro il Napoli, fiducia a Pioli, palpabile incazzatura nei confronti dei giocatori.

“Sono solo parole” cantava la rossa Noemi. Aveva ragione, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Quelli che “che comunicato del cavolo, non servirà a nulla” sono gli stessi che “la società non dice niente, che inetti”. Li chiameremo “eterni arrabbiati”. Hanno le loro ragioni, è evidente, ma occhio a mettere tutti sullo stesso piano.

C’è chi dopo lo schifo di Firenze è riuscito a definire “colpevole” perfino Mauro Icardi, perché “è vero, ha segnato tre gol, ma non gliene frega niente”. Motivazioni importanti e fondate, insomma. La moglie ha sbagliato a twittare? Certamente sì, ma in campo non ci vanno i procuratori. In campo vanno i giocatori e se tutti avessero non solo le qualità, ma anche la voglia e l’abnegazione del capitano nerazzurro, forse, certe figure assumerebbero contorni meno fantozziani.

E poi c’è Pioli, “salvato” nel comunicato ufficiale, ma comunque in "doverosa" discussione.

Il tecnico emiliano conserverà “la cadrega”? Probabilmente no o magari sì: non è questo il punto. Il punto è che in troppi stanno perdendo la dimensione delle cose. Il massacro mediatico subito dal tecnico si somma alla rabbia di gran parte dei tifosi. Molti dicono cose certamente condivisibili (“di fronte al sì di Conte e Simeone sarebbe giusto cambiare guida tecnica”) altri (anche tra i colleghi) si limitano all’insulto, alla cattiveria gratuita (“è un provinciale”, “non è capace”, “sbaglia le formazioni”). La gran parte di questi ultimi sono intimamente convinti che al posto di Pioli, loro, farebbero certamente meglio, ma allora non si capisce perché, invece, siano costretti ad altri lavori mediamente noiosi tipo “il giornalista” o altro.

I beninformati ci raccontano che Pioli dopo la figura di palta della sua squadra al Franchi, avrebbe offerto le dimissioni, poi respinte dalla società. Sarà andata così per davvero? Si è trattato di una provocazione o l’atto di un tecnico che non vuole restare “al dispetto dei santi”? Non lo sappiamo, però sappiamo quali sarebbero le conseguenze di una cacciata del tecnico senza ulteriori prese di posizione: ben presto tornerebbe a trionfare l’anarchia.

Molti mi chiedono “perché difendi Pioli? Hai interessi di qualche genere figlio di mignottaccia?”. Che ci crediate o meno, vi dico che no, non ne ho. E non ne avevo neanche ai tempi di De Boer, quello che all’epoca in molti accusavano perché “non sa neanche l’italiano” e ora rimpiangono perché “andava difeso”.

Già, “andava difeso”.

Ecco, l’olandese e l’emiliano andavano e vanno difesi non perché siano i tecnici più bravi al mondo – ci mancherebbe - ma perché 1) Hanno dimostrato di essere persone serie (e non è poco). 2) Non sono loro il problema, o comunque non quello principale.

Cambiare “tanto per” (dopo Conte, Simeone, Sarri e Jardem oggi è il turno di Spalletti) significa riconsegnarsi nelle mani del destino già scritto: al primo inciampo, trovato il colpevole.

Questo significa che Pioli deve restare "a tutti i costi" o che il comunicato dei nerazzurri racconti “tutta ma proprio tutta la verità”? No, ovvio. Pioli ha ridotto di molto le speranze di conferma, ma non prendete come oro colato le parole di chi spaccia certezze (“arriva Simeone, ma Conte è sullo sfondo, e Jardem dipende da come va la Champions, ma Spalletti è caldo e Sarri ha rotto con De Laurrentiis quindi…”) perché in questo momento servono solo ad aumentare la confusione. E davvero non se ne sente il bisogno.

QUI MILAN

Per una volta lasciamo perdere le questioni "cinesi", il "compreranno? Ma chi compreranno...", i dubbi di chi teme il peggio "perché quello là non c'ha un soldo" eccetera eccetera.

Ch i scrive sa che il piano di mercato è già partito, che la volontà è quella di rinforzare ogni reparto con un acquisto (difesa, centrocampo, attacco, oltre a un esterno), che girano troppi nomi secondo il "solito" schema ("tu spara a raffica, prima o poi qualcuno lo prendi") e che Mirabelli parla poco ma difficilmente a vanvera ("mi stupisco di chi si stupisce se mi vedono negli stadi: è il mio lavoro").

Ci sono giocatori che interessano realmente (sì, anche Keita) e possibilità di portarli a Milano nonostante il budget non consenta di proporre offerte stratosferiche. Come? Utilizzando il caro vecchio metodo che, sceicchi a parte, tutti sfruttano: ovvero rateizzando.

Molti storceranno il naso ma, come vi dicevo, per una volta eviterei di combattere l'infinita battaglia con i "pessimisti a prescindere" e parlerei di campo e di Montella.

Il tecnico rossonero ha commesso errori domenica? Forse sì, ma non tocca certamente a noi dirlo. Va profondamente attaccato, criticato, pungolato? No, almeno per chi scrive.

Dice il tecnico: "Dove pensavate si potesse arrivare con questo gruppo?". E non sbaglia. A inizio stagione tutti noi "espertoni" collocavamo i rossoneri tra il quarto e il settimo posto, ora ci meravigliamo se la squadra combatte per l'Europa League. La partita con l'Empoli è stata certamente un disastro ma - come sempre dovrebbe accadere - certe valutazioni non dovrebbero limitarsi "al giorno prima".

Ci sentiamo di muovere due soli appunti al tecnico rossonero.

Il primo: il segreto di Pulcinella legato al futuro di De Sciglio mal si sposa con la scelta non solo di schierarlo tra i titolari, ma anche di affidargli la fascia da capitano. Il ragazzo è bravo e onesto, ma quando certi matrimoni hanno superato la data di scadenza è meglio per tutti evitare di accanirsi.

2) Locatelli. La premessa è sempre la stessa: il qui presente non passa le giornate a Milanello, né sa se ci sia un qualche problema legato allo scarso utilizzo del giovane centrocampista. Il dato di fatto, però, è che si è passati da un estremo all’altro: il “nuovo Rivera” di ottobre è diventato “un ragazzo come tanti” oggi, al punto di non poter giocare al posto dei vari Sosa o Mati Fernandez, generosi ma assai poco spendibili per 90 minuti interi. Da un tecnico coraggioso come Montella ci si aspetta più… “coraggio”. Appunto.

E qui vi devo lasciare. Una rottura di balle clamorosa mi porta lontano dalla tastiera.

Vi lascio in ottime mani: oggi l'editoriale lo completa il "fido" Claudio Savelli, uno che di calcio ci capisce molto ma molto più di me. Prendetevela con lui.
QUI JUVE

L'unico rischio per la Signora era quello di pagare dazio in campionato delle fatiche di Champions. Spesso, dopo le grandi imprese e i conseguenti, meritati complimenti, la minaccia è il calo dell'attenzione e della tensione. Macché, la Juve sembra talmente perfetta da non accusare alcun calo, né psicologico né fisico, anzi, l'impressione è che stia crescendo sotto tutti i punti di vista, come forgiata dalle vittorie (il lussuoso 0-0 del Camp Nou è come se lo fosse) che si susseguono senza interruzioni. La strategia di Allegri, secondo il quale prima c'è il “dovere” di acquisire il vantaggio e poi il “piacere” di gestirlo, è ormai propria di questa squadra se è vero che la partita casalinga con il Genoa è di fatto durata 18 minuti appena, giusto il tempo necessario ai bianconeri per andare sul 2-0 e mortificare qualsiasi buona intenzione della squadra di Juric. Ormai questo approccio feroce alle partite è una consuetudine per i bianconeri ed è un certificato di grandezza autentico: nessuna in Italia può essere all'altezza della Juve perché oltre a non avere giocatori dello stesso valore, nemmeno possiede questa capacità di ipotecare molto presto i risultati.

La Signora ha vinto le ultime 33 partite casalinghe allo Stadium in Serie A, mantenendo la porta inviolata in 22 occasioni. Dalla prima di campionato nel nuovo impianto (4-1 contro il Parma nel settembre 2011), ha collezionato 95 vittorie, 14 pareggi e appena tre sconfitte, con 248 gol segnati e 56 subiti. Con numeri del genere, il dominio bianconero è un'ovvia conseguenza, così come il 6° Scudetto consecutivo che è solo in attesa della certezza matematica per essere assegnato alla Signora.

Il doppio vantaggio immediato sul Genoa serviva per guadagnare tempo per il riposo in vista della sfida di venerdì con l'Atalanta e alla successiva semifinale di Champions con il Monaco (l'andata mercoledì 3 maggio al Louis II). A proposito della prossima rivale europea della Signora, alleghiamo in fondo all'editoriale una piccolissima e poco pretenziosa guida per capire di che pasta è fatta questa squadra in odore, anche lei, di triplete.

QUI NAPOLI
Chi dice che il Napoli avrebbe più punti se giocasse un calcio meno bello ma più pragmatico mente sapendo di mentire. È un ragionamento che va oltre il mezzo passo falso con il Sassuolo. La differenza della squadra partenopea è proprio il gioco che le ha donato Sarri (selezionato tra i 50 migliori allenatori al mondo dall'Equipe), non avesse quest'arma a disposizione avrebbe certamente molti punti in meno. Il Napoli non può giocare come la Juventus perché non ha quel tipo di giocatori, Insigne non è Mandzukic come Albiol non è Bonucci e così via, ci sono qualità profondamente diverse nelle due squadre e i rispettivi allenatori sono abili nell'assecondarle in modi altrettanti differenti ma aderenti all'una e all'altra. Ultimamente si sta perdendo la percezione del lavoro straordinario di Sarri, che ha portato il Napoli al massimo delle sue potenzialità già l'anno scorso, e quest'anno l'ha confermato su quel livello senza Higuain e, di fatto, senza il suo sostituto Milik: era un'impresa tutt'altro che scontata. Ora il Napoli deve decidere cosa vuol fare da grande, come ha fatto intendere lo stesso Sarri: può “accontentarsi” di questa dimensione, con il rischio che le altre squadre (le milanesi?) nel frattempo la raggiungano, oppure può ambire al salto di qualità definitivo per provare a raggiungere la Juve. Detto che giocare meglio di così è impossibile, il gap deve essere colmato a livello di società, e quindi migliorandone tutti gli aspetti (compreso quello economico), e a livello di rosa, ovvero inserendo quei tre-quattro giocatori davvero “superiori” alla già ottima media degli azzurri. Serve gente che ha già vinto e che quindi sa trascinare la squadra nelle partite e nei momenti difficili, per intenderci servono i Khedira, i Mandzukic, i Dani Alves che negli ultimi anni si è assicurata la Juve, spendendo tra l'altro cifre nulle (il tedesco e il brasiliano sono arrivati a parametro zero, ma con uno stipendio “adeguato” al loro blasone) o ragionevoli. Il Napoli ha già abbastanza giovani da far crescere che con ogni probabilità diventeranno giocatori straordinari, ora servono i grandi campioni: tocca a De Laurentiis, eventualmente, convincersi di questa esigenza.
Prima della buonanotte, come promesso, ecco la mini-guida tascabile al Monaco di Jardim, prossimo avversario della Juve in Champions, scritta a suo tempo su “Il Senso del Gol”.

Buona lettura, se vi va.

(Twitter: @FBiasin @ilsensodelgol @pensavopiovesse Mail: ilsensodelgol@gmail.com)

Il Monaco in parole povere: la forza gioiosa e naturale del talento, in campo e in panchina. Manifesto di un calcio senza vincoli, ordinato nella fase difensiva, diretto in quella offensiva. Non ci sono dubbi, nel Monaco, perché Jardim è un allenatore che basa la squadra su poche certezze, ma perfettamente assimilate. È una squadra pura, attacca e difende con la stessa efficacia perché non preferisce l'una o l'altra cosa.

I punti di forza: da Mbappé a Mendy, da Fabinho a Silva, sono questi i giocatori nuovi del calcio europeo. Inoltre, è tornato il vero Falcao. Jardim è il valore aggiunto, la lettura delle partite è efficace perché valorizza le armi a sua disposizione. È un tecnico, il portoghese, che scava nelle debolezze dell'avversario e modella la sua squadra allo scopo di segnargli più gol possibili. Sei gol al City in due partite, altrettanti al Borussia: l'obiettivo è farne uno in più dell'avversario, senza calcoli, ed è una filosofia che può agitare uno scontro diretto. Una variabile fuori contesto, che solo il Monaco può permettersi perché è nella sua natura, perché è il modo che ha trovato Jardim per rendere la sua squadra all'altezza delle grandi.

Le debolezze: la gioventù è un rischio quando la posta in palio si alza. È un vento che travolge finché non trova muri solidi. I centrali di difesa non sono all'altezza degli altri giocatori, se sollecitati individualmente, rischiano. E poi, il contesto. Giocare a Monaco non è come affrontare il Camp Nou, è uno stadio più piccolo, più freddo, il pubblico non è abituato a determinare gli andamenti con la sua presenza. Infine, l'appagamento. Il Monaco è già oltre la sua dimensione reale, potrebbe essere contento così. Lo è la dirigenza, che ha messo in vetrina i talenti migliori, lo sono i giocatori stessi, che si sono affermati come gruppo ma anche come singoli.

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