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Il diamante De Ketelaere, al Milan di Pioli o nel Bruges di Happel: un giocatore senza tempo e credibile in ogni spazio

di Carlo Pizzigoni
Giornalista, scrittore, autore. Quattro libri, tanti viaggi. Tutti di Calcio. Su Twitter è @pizzigo. Su Twitch con @lafieradelcalcio
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Mi ricordo bene che c’erano solo quattro lunghe corde, nemmeno tanto spesse, a circondare il campo per evitare che i pochi curiosi potessero avvicinarsi ai giocatori. La squadra si allenava proprio all’ombra dello stadio Jan Breydel, pochi metri più in là. Per osservare esercizi e strategie mi accostai Franky van der Elst, centrocampista di culto degli anni 80, icona del Belgio che nel calcio aveva portato qualcosa di nuovo in quella decade e si era imposto come Paese laboratorio. Iniziai a bombardarlo di domande proprio su quegli storici e, almeno per me, già all’epoca appassionato di storia calcistica, mitologici Diavoli Rossi, ricavandone risposte piuttosto generiche. Lui in fondo era lì per osservare l’allenamento, pensai azionando il tasto mute. L’arrivo di una bionda lo convinse ad abbandonare la scena, lasciandomi con una truppa di marmocchi in attesa di un autografo dai loro idoli e poi finalmente con Trond Sollied, il tecnico norvegese di quel Club Brugge che conquistò il campionato per un paio di stagioni consecutive sul principio degli anni 2000.

Bruges, la città con il marketing turistico migliore al mondo, non è propriamente una città calcistica ma ha vissuto periodi d’oro grazie al grandissimo Ernst Happel che portò lo sconosciuto Club Brugge Koninklijke Voetbalvereniging, questa l’esatta denominazione in lingua fiamminga, a una finale di Coppa Uefa e poi a quella di Coppa Campioni, giocata alla pari, anche se poi persa di misura, contro il Liverpool di Bob Paisley e dopo aver eliminato in semifinale la Juventus. Happel, viennese cresciuto nel mito del Wunderteam e della scuola danubiana, è stato un genio assoluto di questo gioco, e uno dei primi teorici e pratici del calcio come orchestrazione di movimenti sincronizzati e sviluppo di calciatori polivalenti, e il cui contributo ha permesso al gioco di entrare in una nuova era. Ha vinto due Coppe Campioni con autentiche outsiders, il Feyenoord nel ‘70 e l’Amburgo nell’83 e titoli in quattro campionati europei diversi, di cui tre consecutivi, dal ‘75 al ‘78 in Belgio, coi Blauw en Zwart di Bruges, primi scudetti dopo quello del ‘20.

Dopo essersi collocati quindi sulla mappa del calcio continentale, il Bruges/Brugge è entrato nel gotha del calcio belga, guadagnandosi rispetto e interesse. Oltre che l’attenzione e l’affetto dei tanti ragazzi che hanno amato il calcio nella cittadina fiamminga autoassegnatasi il titolo di Venezia del Nord (se, come no…) e di cui ho incontrato i rappresentanti dopo l’abbandono di Van der Elst.

Era, così raccontano in Belgio, esattamente così, da piccolo, Charles De Katelaere, entrato nel club all’età di sette anni e, dopo aver compiuto tutta la trafila con la stessa maglia, debuttante favoloso in una notte di Champions League contro il grande Paris Saint Germain: una gara da consacrazione, una gara giocata in mezzo ai grandi, ma già da grande, una gara giocata con un QI calcistico già sviluppatissimo.

Johan Cruyff diceva che chi da piccolo sviluppa il fisico dopo gli altri deve avere la forza e la capacità di coltivare un’intelligenza speciale per crearsi alternative credibili. Sta sostanzialmente descrivendo il piccolo Charles, che improvvisamente si alza di statura ma non mette su chili, e i tecnici del settore giovanili lo spostano qua e là per il campo: interno, centrocampista, esterno d’attacco, sottopunta. Insomma, viene sollecitato a conoscere ogni zona del campo, ma tutti i suoi allenatori sono concordi almeno su una cosa: la sua vocazione offensiva, e la capacità di incidere davvero nell’ultimo terzo di campo. Tanto che dopo una partita in cui lo hanno inventato Nove, dice: “Non so dirvi in quale posizione giocherò in futuro. Non ho mai giocato con le spalle alla porta prima di stasera, ma mi sono trovato bene…”.

Crea, rifinisce, finalizza. La formazione sui generis lo ha portato a diventare un sopraffine lettore di situazioni. Il resto, per definirlo come calciatore che ha raccolto tante attenzioni, in giro per l’Europa, nelle ultime due stagioni, lo ha fatto il carattere. Lo testimoniano il numero di racchette distrutte quando ancora, bimbo, affiancava l’attività calcistica al tennis, altra sua passione (idolo: ovviamente Federer). Messa da parte la terra rossa, fortunatamente ce lo godiamo sul prato verde, e per metterci in visione vale il consiglio del di Thierry Siquet, suo allenatore nelle selezioni giovanili belghe: “Questo ragazzo è uno spettacolo per chi ha il gusto del gioco. La sua testa è sempre in movimento, riesce a trovare e creare spazio per sé, in modo che ne benefici tutta la squadra. Si muove, per favorire l’efficacia della squadra. Per questo motivo, quando era con noi nelle giovanili, alcune volte l’ho provato pure come centrale di difesa. Perché Charles vede prima di tutti il mondo“. I lampi che ha già lanciato nelle prime uscite hanno messo i brividi ai tifosi del Milan.

La sua intelligenza e la sua polivalenza sul campo, sarebbe certamente piaciuta molto a Happel. Cioè al titolare della frase-monito: “ Un giorno senza calcio, è un giorno perso”. Non so se da van der Elst, ma certamente da De Ketelaere, sarebbe oggi sottoscritta, questa massima, da vero cultore del gioco. Da qui in avanti, anche una partita senza Charles, sarà una partita un po’ meno interessante. Vale per i tanti milanisti, e per gli sterminati appassionati del gioco. La città bella di Anversa è la capitale mondiale dei diamanti, ma Bruges, dove è cresciuto Charles, è proprio lì vicino…

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