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Ci vuole più coraggio a restare che ad andarsene

di Luca Serafini
per Milannews.it
Federico De Luca
Federico De Luca

Adriano Galliani è stato per un quarto di secolo il miglior dirigente sportivo italiano, senza discussioni e senza rivali. Probabilmente uno dei migliori nella storia del nostro Paese. Preparato in materia di calcio, basket, marketing, pubblicità, televisione, diritti tv, normative, regolamenti, esperto di questioni internazionali, apprezzato e stimato all’estero più di chiunque altro. Basti pensare che i suoi competitor in Italia sono stati in Lega e in Federazione Matarrese, Beretta, Abete, Carraro. Politicanti di nessuno spessore e basso profilo. Ha commesso errori, come chiunque lavori molto, esposto alla critica e al pubblico. I meriti hanno comunque superato di gran lunga le manchevolezze. Il suo torto maggiore è stato combattere Luciano Moggi attraverso la telefonata di un addetto agli arbitri piuttosto che grazie a una denuncia o a una manovra di isolamento e di esautorazione. Un’ingenuità pagata a caro prezzo.

Ebbe una ghiotta opportunità personale a metà del primo decennio del nuovo secolo, quando Berlusconi si infatuò (per la seconda volta) di Luciano Moggi pensando di portarlo in rossonero e candidare Galliani alla presidenza della Federazione. Esattamente in quell’epoca però esplose Calciopoli e spazzò via tutto. Da quel momento il loro rapporto non è più stato lo stesso. Ormai da quasi 10 anni infatti, ormai senza feeling Berlusconi sopporta Galliani: primo, perché non ha mai avuto un’alternativa consistente. Secondo, perché oggi la liquidazione dell’amministratore delegato del Milan già potentissimo dirigente Fininvest e Mediaset, non ha praticamente mercato. Galliani può chiedere quello che vuole. Infatti lo ha chiesto. Senza peraltro ottenerlo. Dunque ha accettato di spartire la poltrona con Barbara la quale ovviamente se ne sente prigioniera e di questo si lamenta – invano – con il padre. Un imbuto senza fine, in cui sono finiti uno dietro l’altro Allegri, silenzioso complice dello smantellamento, Seedorf, reo di una rivoluzione soffocata sul nascere, e Inzaghi intrappolato dalla sua passione e dalla sua ambizione.

Con un Presidente ormai stanco e svogliato, protagonista di un’impennata elettorale nell’estate del 2010 e poi risprofondato in un letargo spezzettato solo da qualche picnic a Milanello il venerdì, Galliani ha proseguito nello sbaraccare la compagnia, operazione incominciata nel 2009 con la farsa Kakà e proseguita con la Pompei del 2012. Il Milan è uscito dal campo dimettendosi da grande squadra. Mai più un progetto, una strategia, un obiettivo, un indirizzo, un percorso, un’idea, un acquisto mirato: solo operazioni di piccolo cabotaggio legate a questa o quella amicizia, questa o quella opportunità mendicata o pasticciata. Con il Presidente a fare spallucce.

Con una storia così importante alle spalle, il capolavoro finale di Galliani sarebbe stato allevare un erede – di famiglia o no – al quale affidare il testimone, col quale condividere un briciolo di fiducia, una prospettiva grande o piccola. Lo stadio nuovo, per esempio, l’unica credibile risorsa per non naufragare o finire in mano a emiri, sceicchi, russi, indonesiani… Invece no: il Milan come patrimonio sportivo è finito in secondo piano, il brand camuffato tra discorsi incomprensibili, distorti e comunque incoerenti come quelli di un commercialista di provincia che si è sostituito al geometra della metropoli. Bilancio in pari? Balla. Ingaggi ridotti? Balla. Squadra ultracompetitiva? Balla. La conversazione col finto Ferrero di “RDS” nello scherzo telefonico perpetrato a Galliani questa settimana (“Nel calcio si vince e si perde, bisogna restare calmi”) rivela crudamente l’attuale scarsa reattività, rabbia che una volta lo avrebbero indotto a dire: “Dobbiamo uscirne, sto preparando la rivoluzione”. C’è il vuoto invece: di autocritica, senso della realtà, lungimiranza.

Il Milan di Berlusconi e Galliani ha attraversato stagioni sportive mediocri, quelle dei ritorni di Sacchi e Capello, quelle di Tabarez e Terim, sapendo rialzarsi come o più forte di prima. Oggi questa volontà non esiste più. Questa speranza è morta nei piedi dei Birsa e dei Constant, dei Muntari e degli Essien, nel pentolone della minestra Honda, Kakà, Saponara, Matri, Pazzini, Maxi Lopez, Balotelli, Menez, Torres, ora Destro che sarebbe il minore dei mali anzi, nelle cantonate Pato-Tevez, nella farsa-Seedorf, nel sacrificio annunciato dell’ennesima bandiera (Inzaghi) dopo le trombature a tavolino di professionisti pensanti con il cuore rossonero come Maldini, Albertini, Costacurta che una mano al Milan l’avrebbero data volentieri. Come lo stesso Ariedo Braida, soppiantato da piazzisti camerieri e faccendieri poliglotti che in realtà nemmeno masticano un italiano comprensibile. Inesorabilmente l’attaccamento alla poltrona ha sorpassato nell’anima quello che era “un affare di famiglia” sfociato nell’amore.

Abbiamo stimato, apprezzato e lodato Galliani per 25 anni. Lo meritava. Intuendo che il vento stava girando bruscamente, abbiamo preso ad attaccarlo sollecitandolo, pregandolo, criticandolo, senza risultato se non un paio di patetiche mail di legali che non ci credono neanche loro. Ora che insorgono tifosi, celebrità, critici, simpatizzanti e prima o poi anche gli sponsor, ora che si desta la Curva dal suo torpore, ora che gli operatori spernacchiano il Milan come una questuante caduta in disgrazia sul sagrato, ora che sarebbe il tempo di decisioni importanti e definitive prima che lo scempio consumi del tutto una storia di successi, liquidazione o no ci vuole più coraggio a restare che ad andarsene. Prima che sia troppo tardi per una qualsiasi delle due scelte.


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Sabato 20 Aprile 2024